Quando si comincia un percorso di psicoterapia, anche se il paziente sceglie di rivolgersi al professionista per un altro problema, spesso si finisce con il lavorare sulla rabbia e la sua gestione.
In generale, è opinione comune che la rabbia sia qualcosa di dannoso, un’emozione da censurare o estirpare perché fa perdere il controllo di sé. In realtà, però, la collera è un’emozione naturale, qualcosa di istintivo e funzionale alla nostra sopravvivenza. È uno strumento fornitoci dalla natura e sviluppato in milioni di anni che serve a proteggerci da quello che può ferirci. La rabbia, infatti, ci permette di reagire ai soprusi e alle ingiustizie, di farci valere quando percepiamo una minaccia, sentiamo che i nostri bisogni vengono frustrati oppure non riusciamo a raggiungere un obiettivo. La rabbia è innata, si manifesta fin dalla prima infanzia e, di conseguenza, non va considerata come qualcosa da curare. Più semplicemente, occorre imparare a gestire quest’emozione incanalandola nel modo corretto perché possa sprigionare le proprie potenzialità benefiche.
Quando la rabbia diventa disfunzionale
Come detto in precedenza, la rabbia si manifesta fin dalla più tenera età. È proprio in quel momento che possono verificarsi delle situazioni che ingenerano una difficoltà nel controllare l’emozione, trasformandola in qualcosa di violento, esplosivo e, quindi, dannoso.
È del tutto normale che un bambino che subisce maltrattamenti di qualche tipo, fisici o emotivi, dalla violenza verbale alle botte, provi una genuina rabbia nei confronti dei propri genitori. Quell’emozione, però, quando ci si trova al cospetto di genitori abusanti, viene sanzionata perché ritenuta “sbagliata”, considerata inaccettabile: se il genitore è abituato ad alzare le mani, lo fa con più frequenza quando il bambino esprime collera; se lo umilia, l’umiliazione aumenta di grado. Di fronte a queste reazioni, il bambino ha paura di esprimere apertamente la rabbia che prova nei confronti dei propri genitori e finisce con il reprimerla, soffocarla dentro di sé.
La rabbia deviata
Ma la rabbia repressa non viene cancellata, non può scomparire. Spesso viene deviata su altri soggetti, che non hanno causato quell’emozione ma ne diventano vittime. La rabbia deviata dai suoi soggetti originari finisce con scaricarsi contro i pari, che possono essere i fratelli o i compagni di gioco, ma soprattutto contro soggetti più deboli, che non sono in grado di difendersi. Si innesca così una spirale negativa che, spesso, porta a fenomeni di bullismo, aggressioni verbali e fisiche.
La rabbia autodiretta
In altri casi, però, la rabbia deviata non si sfoga contro soggetti esterni, estranei ma contro sé stessi. È quella che viene chiamata rabbia autodiretta, che si esprime nelle forme più varie e che rappresenta il modo in cui il soggetto si rimprovera per la propria impotenza e incapacità di far valere le proprie ragioni, i propri bisogni e sentimenti. La rabbia autodiretta può manifestarsi attraverso l’autolesionismo (tagli sul corpo, bruciature), attraverso l’abuso di alcol e droghe oppure con atteggiamenti autolesivi meno evidenti, come correre a folle velocità in automobile o in moto.
Le cause all’origine di forti sentimenti di rabbia nei bambini possono anche essere altre. Per esempio, l’essere continuamente esposto alla rabbia di un genitore. Vivere accanto a un padre o a una madre sempre in collera, induce il bambino uno stato di allerta continuo, in attesa del prossimo scoppio d’ira. Il bambino assorbe l’impulsività del genitore, in una vera e propria forma di adattamento all’ambiente in cui vive. Anche essere testimone di violenze domestiche predispone a comportamenti aggressivi.
L’adulto con problemi di rabbia
Chi vive questo tipo di esperienze nell’infanzia, tende a sviluppare una personalità con alcune caratteristiche tipiche. Innanzitutto, la presenza di un super io giudicante ed esigente che deriva dall’interiorizzazione di alcuni aspetti dei genitori. C’è poi la tendenza a sottomettersi all’autorità, a cui si associa anche una forte impulsività e un’aggressività pronta a esplodere non appena avviene una minima sollecitazione.
Una volta raggiunta l’età adulta, quanto vissuto da bambini si ripropone in uno schema, un modello di comportamento che viene adottato in modo inconscio: l’abusato diventa abusante, il maltrattamento di cui si è fatta esperienza nell’infanzia si riattualizza nel presente, la vittima si trasforma in un carnefice. I primi a subirne le conseguenze sono i più indifesi, i figli.
Ma anche il partner viene coinvolto in questa spirale di aggressività e violenza legata alla rabbia. Nel suo caso, però, possono verificarsi almeno due diverse dinamiche a seconda della personalità del compagno o della compagna. Può trattarsi di un soggetto che sviluppa una forma di dipendenza nei confronti del partner maltrattante, come nel caso delle donne che soffrono di dipendenza affettiva e che quindi vivono all’interno di una relazione disfunzionale; oppure può cercare di sfuggire e sottrarsi all’altro, percependolo come una minaccia alla propria incolumità, fisica e psichica.
È evidente che chi ha problemi nel gestire e controllare la rabbia, che ha scoppi d’ira improvvisi che possono sfociare in violenza verbale e fisica, ha difficoltà anche a mantenere una rete di relazioni. Con il passare del tempo, inevitabilmente, si fa terra bruciata intorno, allontanando le persone care a causa dei propri comportamenti eccessivi e, per chi guarda dall’esterno, incomprensibili.
È a quel punto che si fa strada la consapevolezza della necessità di invertire la rotta e riuscire a sbloccare una situazione problematica, che impedisce di vivere appieno e in modo sereno. Si può provare a seguire dei corsi o gruppi di gestione della rabbia oppure rivolgersi a un terapeuta che aiuta ad affrontare e comprendere quest’emozione divenuta violenta attraverso un percorso di psicoterapia che consente di imparare a gestire la rabbia.
Dalla rabbia all’assertività con la psicoterapia
Ci si potrebbe domandare cosa avviene nel concreto durante le sedute di psicoterapia quando si affronta il problema della rabbia disfunzionale. Innanzitutto, è molto probabile che si inneschi un meccanismo noto come transfert negativo: il paziente, cioè, avrà la tendenza a portare la propria rabbia all’interno del setting terapeutico, proiettando l’emozione negativa sul terapeuta, sfogandola su di lui o lei. Ciò significa, in termini concreti, che il paziente potrebbe trasformare qualsiasi evento, parola o gesto in un motivo di risentimento, poiché li guarda attraverso una lente che distorce tutto. Potrebbe pensare, ad esempio, che il terapeuta non gli rivolge la dovuta attenzione, potrebbe sentirsi offeso per un determinato atteggiamento, interpretato come un deliberato attacco personale.
Qualunque cosa può essere presa a pretesto per scatenare la reazione di rabbia.
Di fatto, però l’emozione ha tutt’altra origine. Compito del terapeuta esperto è, di conseguenza, quello di condurre il paziente a prendere coscienza del fatto che la rabbia che prova è irrazionale poiché viene direzionata contro un soggetto che non ne rappresenta la vera causa. Lo psicoterapeuta che si trova davanti un paziente che ha difficoltà nel controllare la furia, non reagisce come farebbe chiunque altro, magari mettendosi sulla difensiva o attaccando a sua volta ma sospende l’agito e favorisce una riflessione su quel che sta accadendo, sulle emozioni sperimentate e sul vissuto che c’è dietro. Lo strumento principe di questo percorso verso una maggiore consapevolezza è il dialogo, il confronto a due, faccia a faccia che consente di riconoscere i reali motivi alla base della rabbia.
Una volta fatta emergere questa realtà, si comincia a capire che la rabbia non può cessare finché non viene riportata alle sue motivazioni profonde. Gli scoppi d’ira improvvisi, le urla, gli insulti o la violenza agita non sono una soluzione, soltanto uno sfogo momentaneo della tensione accumulata. L’unico modo per guarire è poter esprimere pienamente quella rabbia, riconoscendone la radice.
Ciò non significa che chi ha sofferto a causa dei maltrattamenti vissuti in infanzia deve prendersela con i genitori o colpevolizzarli. Occorre sempre distingue tra l’ingiustizia subita e la colpa. I genitori che si sono rivelati maltrattanti e non hanno saputo rispondere ai bisogni del bambino, facendolo sentire spaventato, indifeso, abbandonato, hanno commesso un’ingiustizia nei confronti del figlio.
Ma il figlio adulto arriva a comprendere che non può condannarli poiché il loro comportamento nei suoi confronti è frutto di automatismi di cui loro stessi sono vittime. Loro stessi, nel corso della propria infanzia, hanno vissuto esperienze a causa delle quali hanno introiettato quegli schemi di comportamento. Rendersi conto di questo è il primo passo per poter arrivare a esprimere la rabbia in modo costruttivo, facendola diventare assertività che consente di esprimere i propri bisogni, le proprie emozioni e pensieri nel pieno rispetto di sé e degli altri, in modo deciso e chiaro.