Psicologia della riabilitazione post intervento di protesi d’anca
L’intervento di protesi d’anca si è molto evoluto negli ultimi decenni, al punto da essere considerato come una delle operazioni chirurgiche più soddisfacenti in assoluto in campo medico.
Molti sono i personaggi famosi che l’hanno ricevuta, tra cui Ray Charles, George H. W. Bush e Jane Fonda. La crescente diffusione di questo tipo di intervento non ha generato però un parallelo approfondimento degli aspetti psicologici ad esso legati. In questo articolo il mio intento è quello di far fronte, certamente in modo parziale, a tale lacuna.
La prassi comune tende ad affrontare il percorso di intervento di protesi d’anca attraverso un’ottica esclusivamente medica, organica, concreta. Gli aspetti psicologici non vengono quasi mai considerati in modo formale e sistematico e si manifestano al massimo in relazione alla sensibilità e alla libera iniziativa dei singoli professionisti (medici, fisioterapisti, infermieri, psicologi, ecc.).
Troppo spesso si fa fatica a comprendere come le componenti mentali giochino un ruolo di assoluta importanza per il recupero del paziente che abbia ricevuto una protesi d’anca. L’umore, l’autostima, le convinzioni di quest’ultimo influiscono infatti in modo decisivo sul buon esito del suo percorso riabilitativo e sulla sua qualità di vita.
Elementi psicologici relativi al momento del ricovero nella struttura di riabilitazione
Subito dopo l’intervento, la prassi prevede un periodo di riabilitazione, di una durata che può variare da uno a tre mesi. La riabilitazione deve essere svolta in un centro specializzato. Da questo momento in poi il chirurgo ortopedico rivedrà il paziente con frequenza mensile, per alcune brevi visite di controllo.
Diversamente si dispiegherà l’impatto relazionale del fisioterapista, che condividerà col paziente molte ore ogni giorno, per un periodo di tempo significativo. In effetti, se dalla abilità del chirurgo dipenderà la buona riuscita della collocazione della protesi, è al fisioterapista che viene affidato il compito di rimettere in piedi il paziente. Tale immagine del ‘rimettere in piedi’ dev’essere pensata tanto in senso concreto, quanto in senso psicologico e metaforico.
Per afferrarla a pieno occorre fare un passo indietro e considerare i vissuti del paziente al momento del suo ricovero in riabilitazione. Egli nella prima fase del suo percorso è allettato. Viene trasportato dall’ospedale dove ha subito l’intervento al centro di riabilitazione con l’uso della barella e dell’ambulanza. Non può compiere i movimenti più naturali: stare seduto normalmente su una sedia, torcere il busto, protendersi in avanti o verso il basso, avvicinare le gambe al tronco, accovacciarsi, e, ovviamente, camminare.
Tutto questo lo priva di autonomia in quasi o tutte le funzioni di base: andare in bagno, pulirsi, spogliarsi, vestirsi, spostarsi nello spazio. Tale condizione può generare vissuti di vergogna, impotenza e frustrazione, oltre a provocare dolorose ferite nell’autostima. Vanno considerati poi altri punti.
Lo stress relativo alla decisione di sottoporsi ad un importante intervento chirurgico. La tristezza e il lutto legati alla consapevolezza di aver perso una parte del proprio corpo. La sensazione di non accettazione della protesi, che viene percepita come un corpo estraneo. Il dolore post operatorio che si prolunga con alti e bassi per mesi. Il fatto che per un primo e considerevole lasso di tempo qualsiasi movimento ‘sbagliato’ rischi di provocare pericolose fratture o lussazioni può facilmente alimentare sentimenti di fragilità e paura: in certi casi ci si può sentire come una sorta di uomo o donna di cristallo.
Il brusco allontanamento dalla normale routine di vita, dalla casa, dal lavoro, dalle abitudini e soprattutto dall’affetto dei cari ingenera quasi inevitabilmente un senso di solitudine, spaesamento e confusione.
Risulta significativo sottolineare che tutti questi vissuti stressanti e dolorosi possono essere affrontati con successo attraverso un buon percorso di riabilitazione. Anzi il paziente arriverà nella maggioranza dei casi a raggiungere una qualità di vita migliore a quella precedente l’intervento, ma affinché ciò possa avvenire risulta di fondamentale importanza la figura del fisioterapista.
La relazione tra fisioterapista e paziente
A grandi linee l’obiettivo formale del fisioterapista nell’ambito in questione si focalizza sul trattamento di specifici distretti muscolari (soprattutto quadricipite e gluteo), sulla rieducazione posturale e sul ripristino di una corretta deambulazione. Ma se a livello concreto la cura del fisioterapista si dispiega lungo questi binari, da un punto di vista del processo informale la sua cura è anche e soprattutto di tipo psichico.
In primo luogo la struttura stessa del contesto riabilitativo assume una importante valenza emotiva. La routine imposta dal trattamento fisioterapico infatti con i suoi contesti dedicati a specifiche attività, con i suoi orari, ritmi e confini offre al paziente una struttura a cui riferirsi provvisoriamente per non cadere preda della confusione.
Occupa poi un ruolo di primo piano la relazione fisioterapista-paziente. Il fatto stesso che il fisioterapista sia lì presente per prendersi cura della persona comunica a quest’ultima un senso di accoglienza e calore umano che la aiuta a far fronte al senso di solitudine e sconforto.
Quando il fisioterapista durante gli esercizi tocca e massaggia il corpo del paziente gli comunica – in modalità non verbale e quindi emotivamente efficace – che la sua protesi non è qualcosa di ripugnante e lo invita implicitamente ad accettare il suo nuovo corpo. Inoltre se la manipolazione dell’arto operato è focalizzata al recupero delle sue funzioni, quello stesso contatto corporeo è altresì in grado di tamponare le emorragie di autostima nel corpo psichico del malato. Grazie a tale dinamica la persona convalescente rientra in contatto col proprio corpo attraverso il sentire, attraverso le mani, gli occhi di colui che se ne prende cura.
Per poter curare il corpo del malato il fisioterapista ha bisogno di conoscere alcune informazioni di base: la storia ortopedica, le sensazioni corporee (dolori, stanchezza, livelli di energia, ecc). Inoltre è previsto anche che il terapeuta presti un servizio informazionale: egli deve cioè spiegare al paziente quali movimenti è opportuno fare e quali sono da evitare per andare al bagno, per vestirsi, per lavarsi, ed anche per fare sesso.
Tale prassi nasce quindi per motivazioni anamnestiche e informazionali ma contemporaneamente offre uno spazio di ascolto e di parola mentalmente molto prezioso. Esso infatti dà vita a un contesto relazionale ed emotivo in cui il paziente può assegnare dei significati agli elementi di novità e cambiamento dell’esperienza in corso.
Dinamiche psicologiche profonde nella relazione fisioterapista-paziente
Oltre a quelle già descritte possono sorgere nel contesto relazionale fisioterapista-paziente anche dinamiche psicologiche particolarmente profonde e potenti. Tali processi si avvicinano in qualche modo a quelli conosciuti in psicoterapia come transfert e controtransfert. Ciò non stupisce se si pensa che la figura del fisioterapista e quella dello psicoterapeuta hanno diversi elementi in comune: la cura della persona, la richiesta di soccorso nei confronti della sofferenza, l’esperienza dell’affidarsi, il darsi di un certo setting, solo per citarne alcuni.
Il forte stress a cui è sottoposto il paziente può portarlo a subire una regressione psichica. In uno stato mentale di questo tipo egli senza rendersene conto, può tentare di instaurare col fisioterapista una relazione di tipo figlio-genitore.
In questi casi il paziente tende a idealizzare il fisioterapista e a pensarlo come una figura salvifica. Tale processo può facilmente scivolare verso una deriva conflittuale nel momento in cui il paziente si rende conto dell’inevitabile scarto esistente tra la reale persona del fisioterapista e la figura ideale che egli aveva proiettato su di lui. Quando questo avviene il paziente può essere travolto da sentimenti tanto irrazionali quanto potenti di risentimento, delusione e rabbia. Tali proiezioni del paziente possono in alcuni casi condizionare la mente del fisioterapista che cade in un processo che in termini tecnici è conosciuto come identificazione proiettiva. Egli cioè può cominciare a identificarsi con le proiezioni del paziente e sentire la spinta a colludervi. Tale meccanismo può portare ad una perdita più o meno grave di lucidità da ambo le parti e influire negativamente sul lavoro di riabilitazione.
Le riflessioni fin qui sviluppate mettono in luce l’opportunità di diffondere la consapevolezza dell’importanza dei fattori psicologici nell’ambito della riabilitazione post intervento di protesi d’anca. Tale consapevolezza potrebbe importanti effetti benefici alla cura del paziente, migliorerebbe inoltre le competenze professionali e la qualità di vita del fisioterapista.
In tal senso sarebbe utile incrementare le sessioni di psicologia all’interno del training didattico dei fisioterapisti. Un’altra iniziativa opportuna sarebbe quella di prevedere all’interno dei centri di riabilitazione degli incontri di gruppo per fisioterapisti aventi lo scopo di elaborare e quindi gestire nel migliore dei modi le dinamiche emotive che si generano nella relazione coi pazienti.