Ti sarà sicuramente capitato di conoscere qualcuno che, ogni volta che lo incontri, passa il tempo a lamentarsi.
Compiange sé stesso, deplora quel che gli accade, le difficoltà, gli avvenimenti accidentali, il contesto in cui si trova a vivere o lavorare, il trattamento che riceve dai genitori, dalla fidanzata, dai colleghi dell’ufficio.
Magari questo lamentoso cronico è un tuo caro amico o un familiare.
Chiunque sia, è una persona che sembra vedere tutto nero, che non riesce a cogliere il lato positivo delle cose e non perde occasione per sottolineare come tutti gli vada sempre male.
Il suo non è uno sfogo.
Tra lamentela e sfogo, infatti, esiste una precisa differenza.
Sfogo e lamentela: principali differenze
I benefici dello sfogo
Quando ci sfoghiamo – che sia con un amico fidato, il nostro partner o con il terapeuta con il quale abbiamo iniziato un percorso – tiriamo fuori i nostri pensieri, le emozioni nascoste, le preoccupazioni che ci tormentano e non ci fanno dormire la notte.
Lasciamo uscire tutto quello che affolla la nostra mente, cercando in tal modo di allentare una tensione interna, attenuandola e trovando quindi sollievo.
Parlare con qualcuno che ci presta attenzione, ascoltando con rispetto e mostrandosi solidale con noi, ha un effetto davvero catartico.
È una liberazione vera e propria, spesso necessaria e molto benefica.
Trovare il modo di esternare alcune emozioni o pensieri, esprimendoli ad alta voce, ci consente di mettere in atto un’operazione importante: distinguere tra noi stessi e ciò che ci sta creando disagio, l’elemento dello sfogo.
Abbiamo la possibilità di dis-identificarci dal problema, oggettivizzandolo.
Che significa?
Che nel momento dello sfogo, traducendo in parole i nostri pensieri o emozioni, riusciamo ad allontanarci da essi, a non esserne più soggiogati e dominati, a riconoscerne il contenuto senza lasciarci influenzare direttamente da esso.
Possiamo comportarci come un osservatore esterno, mettendo tutto in una prospettiva nuova, più consapevole.
Per questi motivi, lo sfogo ha un valore profondamente terapeutico.
E sempre per questi motivi, non dobbiamo confonderlo con la lamentela.
L’automatismo emotivo della lamentela
La lamentela non ha alcune delle funzioni o delle caratteristiche di cui abbiamo appena parlato in relazione allo sfogo.
Chi utilizza questa modalità comunicativa nel proprio quotidiano, la adotta come un modello a cui rifarsi ogni volta che ci si pone davanti una sfida o un problema da affrontare.
La lamentela, infatti, non è qualcosa di estemporaneo, che si verifica ogni tanto, in situazioni particolari.
È un vero e proprio schema ripetuto nel tempo tanto che si parla di “sindrome di Calimero”, ispirandosi al noto pulcino dei cartoni animati che, in ogni puntata, evidenziava a gran voce la propria sfortuna.
Renzo Carli e Rosa Maria Paniccia, che hanno dedicato alcuni studi a questa dinamica, hanno definito la lamentela come una neoemozione, un automatismo emotivo che si sviluppa a partire da una certa struttura di personalità e da un certo assetto difensivo, che porta alcuni vantaggi inconsapevoli.
Vediamo insieme quali.
Perché ci si lamenta? I vantaggi (nascosti) del lagnarsi sempre
Ci sono tre elementi alla base dell’assetto difensivo di un lamentoso cronico:
- il vantaggio secondario di non dover affrontare il problema
- l’illusione di poter delegare
- la possibilità di mostrarsi come un martire
Mi spiego meglio, approfondendo ciascun punto.
Lamentela e rinuncia programmata
“Perché dovrei cercare lavoro e affannarmi così tanto? Non ci sono posti e quelli liberi vanno tutti ai raccomandati. Basta, ci rinuncio!”
“Vorrei tanto conoscere quella ragazza… ma sicuramente non le piaccio. Tanto vale lasciar perdere, fare soltanto brutta figura!”
Leggendo questi due esempi, forse salta all’occhio quello che è il vantaggio secondario dell’assumere la lamentela come atteggiamento di vita: la possibilità di abbandonare il proprio obiettivo ancor prima di cominciare, senza impegnarsi a trovare alcuna soluzione al problema che ci si trova di fronte perché “tanto non andrà bene comunque”.
Il lamentoso cronico non fa altro che esprimere le emozioni negative che prova a causa degli avvenimenti della vita.
È quello il suo modo di affrontare le diverse situazioni e difficoltà, trovando all’esterno di sé le ragioni di un fallimento che, in verità, ha programmato egli stesso perché non ha nemmeno tentato di fare qualcosa.
Lamentela e delega della responsabilità
Quando ascoltiamo qualcuno lagnarsi sempre, siamo anche di fronte a un tentativo (sempre inconscio) di delegare il proprio destino.
Egli cerca di scaricare sugli altri la responsabilità di quello che gli accade, evitando accuratamente di impegnarsi in prima persona, di pensare e di agire per produrre un cambiamento positivo.
Solitamente, l’ascoltatore viene idealizzato.
Su di lui viene proiettata una fantasia che lo trasforma nell’individuo più adatto ad affrontare quel dato problema o quella situazione difficile.
C’è poi un altro elemento da considerare cioè che la lamentela sostituisce la qualità con la quantità.
Che intendo dire?
Che il lagnoso cronico si illude inconsciamente di poter ottenere un qualche cambiamento continuando semplicemente a lamentarsi. Si comporta cioè come se la litania potesse effettivamente smuovere qualcosa.
Lamentela e vittimismo: lagnarsi ci trasforma in martiri
Ma alla base della lamentela continua c’è anche un altro meccanismo inconscio: il desiderio di mostrarsi come dei martiri.
Colui che si lamenta costantemente assume l’atteggiamento del martire, una vera e propria posa che permette di mostrarsi come colui che affronta stoicamente le avversità della vita, che offre il petto ai colpi dell’avversa fortuna, sopportando come un eroe tragico.
Lagnarci ci cambia la mente: le conseguenze fisiche e psicologico della lamentela
Non bisogna sottovalutare il potere della lamentela su di noi e sugli altri.
Questo atteggiamento che alcuni elevano a modello di vita ha pesanti conseguenze sul nostro stato fisico e mentale, come dimostrato dagli studi di neuroscienze.
La lamentela, infatti, è in grado di plasmare la nostra mente, andando ad agire sull’ippocampo, la parte del sistema limbico che è coinvolta nei processi decisionali (decision making) e nella risoluzione dei problemi (problem solving).
Per effetto delle reiterate lamentele, alcuni neuroni di quest’area si spengono e l’ippocampo si “restringe”, perdendo funzionalità.
Ciò significa che, alla lunga, lamentarci limita la nostra capacità di trovare soluzioni.
Dal punto di vista psicologico, invece, la lamentela produce effetti devastanti sull’autostima e sul senso di autoefficacia. Quando ci lagniamo in continuazione di qualcosa, ponendoci in un atteggiamento vittimistico quasi che il mondo intero fosse contro di noi, stiamo lanciando un messaggio agli altri ma soprattutto a noi stessi:
“Non sono capace di fare nulla, non mi sento all’altezza e non lo sarò mai, mi sento del tutto impotente ed è inutile che io provi anche soltanto a fare qualcosa di diverso”.
Simili frasi rivolte a noi stessi (anche se in modo inconscio e indiretto) demoliscono la nostra autostima.
Il pensiero di Ekhart Tolle sulla lamentela
Un interessante spunto di riflessione sul tema della lamentela ci viene dal grande maestro spirituale Ekhart Tolle, autore del volume di successo planetario “Il potere di Adesso”.
Tolle evidenzia come chi si lamenta per un qualsiasi aspetto della vita, criticando gli altri, lanciando strali contro la società, la politica e tutto il resto, in un certo senso cova dentro di sé il desiderio di sentirsi superiore, di avere ragione, arrogandosi il diritto di sottolineare gli errori e le mancanze altrui, quasi lui o lei ne fosse del tutto privo.
È un modo deleterio e del tutto fallimentare di sostenere la propria già precaria autostima, basandola su fondamenta davvero instabili.
Il circolo vizioso del lamentoso cronico
Purtroppo, quello della lamentela è un vero e proprio circolo vizioso che si autoalimenta fintanto che non si rompe il perverso meccanismo che lo sostiene.
I pensieri lamentosi generano emozioni negative come rabbia, frustrazione, tristezza.
Vissuti pesanti che, a loro volta, alimentano pensieri ancora più cupi e tormentosi.
Il rischio è che questa catena diventi infinita, trasformandosi in una prigione.
Accade allora che il soggetto fa sua questa dimensione di lamentela, trasformandola nella propria storia di vita, tragica ed eroica.
Egli si sente la vittima predestinata, l’eroe tragico che affronta un destino infausto a cui non può sottrarsi perché tutto è già stato scritto e non c’è via d’uscita.
Si crea come una falsa identità poiché il soggetto finisce con il fondare il senso di sé su tutto questo.
Come liberarsi della lamentela
Il lamentoso cronico rischia di vivere un’esistenza davvero grama.
Non solo perché rimane invischiato in un meccanismo che gli impedisce di assumersi la responsabilità di sé stesso e di agire per il cambiamento, ma anche perché si condanna a una profonda solitudine, causando l’abbandono da parte dei propri cari.
Come impedire che tutto questo accada?
Un percorso di psicoterapia può aiutare molto, fornendo gli strumenti giusti per prendere coscienza di questi meccanismi, riuscendo a scardinarli.
Chi assume la lamentela come modalità di vita non riesce a operare la fondamentale distinzione tra ciò che gli accade e l’effetto che ciò ha su di lui.
Non riesce a vedere che un conto è l’evento in sé e un altro i pensieri e le emozioni che esso genera, il modo in cui si reagisce a una certa situazione, come la si affronta e la si elabora.
Compito del terapeuta in questo caso è proprio aiutare il soggetto a vedere più chiaro, scorgendo questa differenza, prendendo consapevolezza del meccanismo.
Una volta che si conosce la trappola e il suo funzionamento, è più facile scansarla, evitando di caderci dentro come avvenuto in passato.
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