Le microaggressioni sono una forma di violenza quasi invisibile. Si tratta di espressioni, discorsi e atteggiamenti che feriscono profondamente, spesso senza che il responsabile sia consapevole di quanto dolore stia causando all’altro.
Proprio perché sono “micro”, cioè molto piccoli, passano spesso inosservati. Chi assiste, non ci fa troppo caso e non li considera delle vere e proprie aggressioni poiché non sono atti manifesti e plateali di discriminazione, anche se trasmettono a chi li subisce un messaggio svalutanti.
Tali comportamenti, in apparenza del tutto innocui, colpiscono diverse tipologie di individui in relazione a caratteristiche come l’identità di genere, l’orientamento sessuale oppure l’appartenenza etnica, facendoli sentire fortemente a disagio, sviliti, sminuiti o umiliati per quello che sono.
Sono soprattutto le persone transessuali (transgender) a essere vittime delle microaggressioni, di cui spesso fanno esperienza nel proprio quotidiano, in diversi contesti, da quello lavorativo a quello amicale, passando anche per la famiglia.
Questi attacchi, infatti, hanno il carattere della ricorrenza, vengono cioè ripetuti nel tempo e hanno un forte impatto psicologico nell’individuo.
L’alta frequenza delle microaggressioni causa in chi le subisce un forte stress, un’ansia che si accumula e arriva a un punto tale che le vittime di questi atteggiamenti finiscono spesso con il ritirarsi dalla società, evitando le situazioni in cui potrebbero trovarsi esposte ad ulteriori offese.
Le microaggressioni: microassalti, microinsulti e microsvalutazioni
Esistono diverse forme e tipologie di microaggressioni, che vengono divise in tre macrogruppi:
- i microassalti
- i microinsulti
- le microsvalutazioni
I microassalti sono battutine intenzionali, attacchi che hanno lo scopo di colpire un’intera categoria, disprezzata e vilipesa, di cui fa parte la persona a cui ci si rivolge con quella frase e che viene, in un certo senso, esclusa dal discorso, come fosse un caso a parte.
Pensiamo, per esempio, a una situazione di gruppo in cui alcuni amici, scherzando tra di loro, prendono in giro qualcuno per il suo aspetto dicendo che sembra “un trans”. Nel gruppo, potrebbe esserci una persona veramente transessuale che quindi è vittima di un microassalto.
I microinsulti, invece, sono espressioni, frasi o epiteti che sterotipizzano un gruppo sociale in modo inconsapevole, attribuendogli determinate caratteristiche. Sono insulti velati, non intenzionali, che derivano da un retroterra culturale spesso arretrato, nutrito di pregiudizi.
Un esempio?
La frase “Sei bella per essere trans” contiene l’idea preconcetta che le persone transgender siano per forza di cosa “brutte”. La frase “Federica gioca bene a calcio per essere una donna” trova la sua radice in una concezione stereotipata del femminile.
Entrambi sono microinsulti che offendono un’intera categoria.
Le microsvalutazioni sono forse ancora più subdole perché distorcono o negano completamente le emozioni, i sentimenti e le esperienze della persona oggetto di attacco, svalutandone la sofferenza. Il retropensiero dietro a questo atteggiamento è: “Visto che non avevo alcuna intenzione di offenderti, tu non hai alcun diritto di prendertela”.
Alcuni esempi?
“Sei veramente troppo sensibile!” rivolto a una donna che fa notare a qualcuno quanto le sue parole abbiano un peso.
“Parli sempre di discriminazione, guarda che il discorso era un altro!”
Il deadnaming e il misgendering: microaggressioni che sottolineano il mancato riconoscimento delle persone trans
Le persone transessuali hanno a che fare molto spesso con due forme di microaggressione molto particolari, potremmo dire “specifiche” del loro gruppo di appartenenza:
- il deadnaming
- il misgendering
Di cosa si tratta?
Vorrei partire da un esempio, per essere il più chiaro possibile.
Pensiamo a un ragazzo transessuale che ha appena iniziato il proprio percorso di transizione. Ha sempre percepito di non appartenere al genere maschile e, finalmente, dopo aver avuto più colloqui con uno psicologo, ha ottenuto una certificazione che gli consente di iniziare la terapia ormonale.
È il primo passo per diventare ciò che sente di essere.
Ha deciso di abbandonare il proprio nome di battesimo, poiché sente che non lo rispecchia, non rappresenta il suo vero essere.
Quel nome per lei è un dead name (letteralmente “nome morto”), qualcosa che non dovrebbe più essere menzionato perché richiama un’identità che non è la sua, corrispondente con il sesso biologico osservato alla nascita.
Chiamarla con quel nome, che lei non riconosce più, è deadnaming. Ed è deadnaming anche chiedere a una persona trans quale fosse il suo “vecchio” nome, precedente alla decisione di farsi chiamare in altro modo o alla transizione.
Il deadnaming, dunque, consiste nel riferirsi alla persona transessuale (o non binaria) con il suo nome di nascita, senza il suo consenso.
Esso rappresenta una completa mancanza di rispetto nei confronti della persona, che non viene riconosciuta nella sua identità. È un abuso che può influire molto negativamente sulla sua salute mentale.
Il deadnaming è una pratica piuttosto comune, che viene messa in atto in modo sia involontario, per errore o superficialità, sia in modo volontario, con il preciso intento di ferire la persona transgender. Avviene nei più vari contesti, ma in particolare si assiste al deadnaming soprattutto in ambito scolastico, laddove molti istituti non accettano ancora la carriera alias.
Il misgendering, invece, è la pratica più o meno volontaria di associare a una persona trans il genere sbagliato.
Accade, per esempio, quando si conosce una persona nuova, magari nel gruppo di amici o sul lavoro. Per un po’ tutto procede normalmente, il rapporto di confidenza cresce piano piano in modo spontaneo. Poi, uno dei due scopre che l’altro è transessuale e, all’improvviso, tutto cambia. Quando deve rivolgersi a lui o lei, usa il pronome opposto, sbagliando il genere con cui si riferisce all’amico o all’amica.
Questo tipo di microaggressione è largamente diffuso sulle pagine dei nostri quotidiani.
Gli esempi di misgendering usciti dalla penna dei giornalisti davvero tanti.
Pensiamo, per esempio, al caso di Camilla Bertolotti, donna transessuale di 43 anni, ritrovata senza vita nel giugno del 2022 a Sarzana, uccisa con due colpi di pistola. Diversi giornali, nel descriverla, alternarono l’uso del maschile e del femminile e diffusero il nome di battesimo, recuperato in anagrafe, non rispettando l’identità della donna.
Oppure al triste caso di Maria Paola Gaglianone, morta a causa di uno speronamento in motocicletta da parte del fratello. Era il settembre del 2020 e i principali quotidiani diffusero la notizia secondo la quale il fratello non accettava che la sorella avesse una relazione lesbica. Ma Maria Paola aveva un compagno di nome Ciro, un ragazzo trans FtM cioè una persona nata in un corpo biologicamente femminile che sente di appartenere al genere opposto.
Ciro è stato chiamato Cira e più volte la narrazione intorno a questo ragazzo è stata declinata al femminile, con pronomi e aggettivi che lo identificavano come donna anziché come uomo. Si è fatta un’enorme confusione tra omosessualità – cioè attrazione sentimentale e fisica per una persona dello stesso sesso – e transessualità, cioè convinzione di appartenere a un genere diverso dal sesso di nascita.
Tutto questo è misgendering, un errore nell’attribuzione del genere che, in questo caso, può derivare da ignoranza, da mancata informazione, da pregiudizio.
Complimenti che in realtà sono attacchi
“Sei bravissimo a ballare, si vede che ce l’hai nel sangue”
“Sei bellissima, non avrei mai detto che sei trans”
“Hai proprio buon gusto, come tutti i gay d’altronde!”
Queste frasi, in apparenza, sono degli elogi alla persona, di cui si decanta una qualità o capacità.
Tuttavia, se ci soffermiamo un momento e riflettiamo sul senso profondo di quello che abbiamo appena ascoltato, ci rendiamo conto che questi non sono affatto complimenti.
Sono microaggressioni.
Accentuare una diversità, sottolineandola, è una violenza perché significa alzare una barriera e fare un aperto discrimine tra noi (bianchi, eterosessuali, cisgender) e loro (neri, asiatici, omosessuali, trans etc.).
Mistificare, eroticizzare e divinizzare l’altro in quanto appartenente a una categoria (afro, asiatico, trans…) è una microaggressione.
Chi fa questo tipo di commenti, ha certamente lo scopo di esaltare la persona che ha davanti, ma nel farlo la appiattisce sullo stereotipo legato alla sua categoria di appartenenza.
Se dici “Non sembri trans” rivolgendoti a una persona transessuale, di fatto, stai descrivendo implicitamente l’identità trans come negativa, legandola ad alcune connotazioni fisiche stereotipate che fanno soffrire la persona chi hai di fronte.
Sono intorno a noi: le microaggressioni contro le persone trans nel quotidiano
Per le persone transessuali, dichiarate o meno, le microaggressioni spesso sono all’ordine del giorno, specie in contesti come la scuola e gli ospedali.
Essere transgender a scuola, tra carriera alias e bisogno di inclusività
Purtroppo, l’ambiente scolastico non è sempre molto inclusivo. Molto, naturalmente, dipende dall’istituto o dal liceo frequentato dal ragazzo.
Può capitare (e capita) che i professori non accettino l’identità dello studente, per esempio rifiutando di correggere un compito che riporta nell’intestazione il nome d’elezione del ragazzo anziché quello di battesimo presente nei documenti.
Quello che sto facendo non è un esempio casuale.
È di alcuni mesi fa la notizia di un docente di un liceo romano che ha riconsegnato a un suo alunno trans una verifica svolta, sbarrandone la firma e attaccandolo direttamente per aver usato il nome che si è scelto, nonostante il regolamento dell’istituto preveda questa possibilità.
In quel liceo, così come in altre strutture scolastiche e in diverse università italiane, da diverso tempo esiste la cosiddetta carriera alias: si tratta di una procedura amministrativa che, sulla base di un accordo di riservatezza tra scuola, studenti e famiglia (nel caso di un minore), consente di modificare il nome presente nel registro elettronico e negli altri documenti interni, sostituendolo con quello preferito dal ragazzo o dalla ragazza che stia affrontando un percorso di transizione.
Non tutti gli istituti, però, hanno adottato questo strumento che agevola la vita degli studenti transessuali entro le mura della scuola.
Nel caso in cui non sia attiva la carriera alias, talvolta, i dirigenti scolastici possono chiudere un occhio e fare un favore, trasgredendo alle regole in vigore.
Questo, però, crea un cortocircuito.
I professori di ruolo, correttamente informati, possono scegliere se usare o meno il nome d’elezione dello studente o studentessa. Ma quando arriva un docente nuovo, di sostegno o in supplenza per coprire delle “ore di buco”, ecco che arriva il problema.
Il professore fa l’appello dal registro e quando solleva gli occhi o sente la risposta, rimane interdetto perché si trova davanti una persona con un aspetto diverso da quello che prevede, leggendo quel nome.
La reazione è presto detta: “Mi state prendendo in giro? Dove sta xxx?” oppure “Deve esserci un errore!”
Quella che si innesca è una dinamica di forte imbarazzo. Episodi di questo tipo genera un disagio esponenziale nella persona trans, che fatica a sentirsi accolta, accettata e inclusa nel contesto classe.
Per questo, c’è una forte tendenza all’abbandono scolastico.
Essere transgender di fronte a medici e infermieri: il difficile rapporto con le istituzioni sanitarie
Anche in ambito sanitario le persone transgender hanno a che fare con continue microaggressioni, frutto di ignoranza e mancata preparazione da parte del personale che opera in questo contesto, da medici e infermieri non formati a trattare le persone in modo neutro, senza presupporre il loro genere.
Pensiamo al caso di una persona trans che deve fare degli esami o delle analisi e che viene chiamata a entrare, rivolgendosi a lui/lei con nome e cognome.
Può darsi che questa persona non abbia ancora completato il percorso di transizione, che prevede come ultimo step la rettifica anagrafica, ovvero il cambiamento del nome sui documenti.
Di conseguenza, la persona appare in un certo modo, ma il nome che le viene dato non si conforma con esso perché fa riferimento a un’identità legata al sesso biologico.
Immaginiamo la scena.
L’infermiere chiama un nome maschile e si trova davanti una giovane donna coi capelli lunghi, visibilmente a disagio. Il sanitario, a quel punto, confuso, potrebbe pensare a un errore. Potrebbe chiedere un documento per accertare l’identità del paziente, suscitando la curiosità delle altre persone in attesa.
Immagina la difficoltà, l’imbarazzo e la vergogna che deve provare una persona trans, costretta a gestire una situazione complicata sotto l’occhio giudicante di emeriti sconosciuti che cercano di capire.
Potrebbe capitare persino che i sanitari, dubitando dell’identità del paziente, lo mandino via senza effettuare la prestazione prevista.
Ma anche nel momento in cui supera questa prova e riesce a oltrepassare l’accettazione allo sportello, la persona trans fa il suo ingresso in ambulatorio carica di stress e ansia.
Sa perfettamente che le persone intorno la guardano, la giudicano, parlano di lei alle sue spalle.
Altro esempio di difficoltà in ambito sanitario?
Pensiamo a un evento diverso: la persona trans si reca al pronto soccorso perché ha subito un incidente e deve essere ricoverata per accertamenti.
Anche se ha un aspetto femminile, nel caso in cui non abbia concluso la transizione, verrà ospitata nel reparto in cui si trovano gli uomini (o le donne, se parliamo di un trans FtM), con conseguente grande imbarazzo sia per la persona interessata che per gli altri pazienti.
Sta alla delicatezza e sensibilità di chi si occupa di queste situazioni capire come gestire un paziente trans, garantendogli privacy e riservatezza, magari assegnandogli una stanza in cui si trova da solo/sola.
Conseguenze psicologiche delle microaggressioni
La goccia scava la roccia, dice un vecchio detto.
Vale lo stesso discorso per le microaggressioni: pure essendo episodi di piccola entità, si tratta di violenze e umiliazioni che possono causare gravi conseguenze psicologiche in che ne è oggetto.
Si va dalla depressione ai disturbi alimentari come il binge eating, passando per i disturbi d’ansia, fino ad arrivare al minority stress, lo stress cronico sperimentato da chi appartiene a una minoranza di qualsiasi tipo, dovuto alle discriminazioni subite.
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