Quando si intraprende un percorso di psicoterapia, qualunque sia il disagio o il sintomo manifestato, si finisce con l’affrontare alcune grandi questioni dell’esistenza.
Ci si confronta con il tema della morte, un pensiero che è sempre presente, legato allo scorrere del tempo e al senso di precarietà che tutti noi percepiamo. Si parla della solitudine e della mancanza di significato e di senso, che deve essere trovato non fuori, ma dentro noi stessi.
E ci si imbatte anche nel grande tema della libertà. Un argomento che suscita una certa inquietudine, esattamente come quelli precedenti.
Potrà sembrare strano, ma la libertà mette ansia.
Il legame tra libertà e angoscia non appare subito evidente. Soffermiamoci un momento, riflettiamo insieme sulla questione, andando a evidenziare cosa determina emozioni tanto oscure.
Innanzitutto, cos’è la libertà? Detto in termini semplici, potremmo definirla come la possibilità di fare ciò che desideriamo davvero, sempre nei limiti consentiti, dalla legge e dal rispetto verso gli altri. È una condizione per la quale possiamo pensare, dire e compiere azioni in modo autonomo e indipendente.
Qualcosa a cui tutti tendiamo e aspiriamo ma che nasconde un lato “oscuro”.
“Vista dalla prospettiva della creazione di sé, delle scelte, della volontà e dell’azione, la libertà è psicologicamente complessa e permeata di ansia”
Così scrive il noto psicoterapeuta Irvin Yalom nel suo libro “Il dono della terapia”.
La questione è proprio questa: essere davvero liberi significa dover scegliere per sé stessi, avere la facoltà e quindi la responsabilità di dare forma alla propria esistenza attraverso decisioni e azioni.
Di fatto, la libertà ci mette di fronte a un abisso.
Prendersi la responsabilità della propria vita
Cosa significa tutto questo in terapia?
Innanzitutto, che uno dei compiti fondamentali del terapeuta è quello di aiutare il paziente a prendere consapevolezza che è lui e lui soltanto a doversi assumere la responsabilità di sé e della propria sofferenza.
Se si ha la convinzione che il dolore derivi da qualcosa su cui non abbiamo controllo, la terapia non potrà aiutarci. Se diamo la colpa di quello che proviamo al caso, al destino, alle azioni degli altri, alle ingiustizie sociali, di fatto ci priviamo della possibilità di fare qualcosa per stare meglio.
È nel momento in cui ti assumi la responsabilità di te stesso che puoi lavorare per produrre un cambiamento significativo nelle tua vita, cercando di raggiungere quel benessere psio-fisico a cui aspiriamo quando decidiamo di intraprendere un percorso di psicoterapia.
A questo punto, sicuramente si potrebbe sollevare qualche protesta e un’obiezione: “Quello che mi succede non dipende affatto da me”.
Questo è vero, ma fino a un certo punto.
Lasciami spiegare attraverso un esempio.
Prendiamo il caso di una donna single che viene in terapia e si lamenta delle sue esperienze con gli uomini. Dice che tutti i partner che ha avuto la maltrattavano, la usavano oppure la ingannavano, illudendola. Gli amici si sono sempre rivelati poco affidabili, spesso l’hanno tradita. Non si trova bene neppure con il suo capo, a lavoro. Sostiene che lui si approfitta di ogni situazione.
Quel che racconta la donna è vero, senza ombra di dubbio.
Tuttavia, dovremmo concentrarci non sul 99% delle cose brutte che accadono, quanto sull’1% sul quale lei ha potere e responsabilità.
Ciò non significa addossarle la colpa della sofferenza che prova o puntarle il dito contro.
Piuttosto, vuol dire aiutarla a comprendere che può assumere un ruolo attivo nella propria vita. Che lei è un soggetto e non un oggetto e può cambiare le cose, smettendo di subire.
Non tutti sono disposti ad ammettere di avere un ruolo nella propria sofferenza.
Ci sono pazienti che hanno una mentalità più elastica, che riescono a sopportare quest’idea. D’altro canto, c’è anche chi fa fatica a cambiare punto di vista sulla questione, rimanendo rigidamente attaccato alle proprie convinzioni, senza rendersi conto di avere in mano la propria vita.
Spesso, si finisce con l’incolpare gli altri. Si cercano scuse o giustificazioni, evitando di volgere lo sguardo dentro di sé. Ci si dimentica dii analizzarsi e ascoltarsi per capire meglio la situazione in cui ci si trova.
In ogni situazione di sfruttamento ci sono due soggetti in gioco: uno sfruttatore e uno sfruttato. Se ci si trova spesso a ricoprire il ruolo della vittima, bisogna domandarsi il perché.
Potremmo inconsciamente essere attratti da questa posizione di subordinazione.
Terapia di gruppo e responsabilità personale
In altri articoli mi sono soffermato sui benefici della terapia di gruppo. Anche per quel che riguarda il tema della libertà e dell’ansia, questo tipo di psicoterapia può essere molto utile.
In particolare, la psicoterapia di gruppo crea i presupposti necessari perché il paziente riesca più facilmente ad assumersi appieno la responsabilità della propria vita e dei propri comportamenti.
Vediamo insieme come.
Quando si entra in un gruppo di terapia, ci si trova alla pari con gli altri. Poi, man mano che il percorso procede, seduta dopo seduta, ciascuno di noi trova un suo ruolo, che rispecchia in modo molto preciso il ruolo che abbiamo nella nostra vita quotidiana.
Potremmo dire, in un certo senso, che il gruppo riproduce in piccolo il nostro universo relazionale.
È un microcosmo che simula quel che avviene all’esterno, fuori dalla stanza di psicoterapia, nel “mondo reale”.
Inoltre, il gruppo è consapevole del modo in cui ciascun membro plasma il proprio ruolo.
Ciò permette al terapeuta di osservare da vicino il modo in cui ogni paziente si relaziona agli altri, il suo comportamento, quelli che sono i suoi schemi fissi. Questo è un modo per comprendere le modalità di interazione del paziente. È più semplice capirle così piuttosto che ascoltare il racconto del paziente, che potrebbe anche essere poco fedele rispetto ai fatti, “viziato” dalla sua personale visione e interpretazione.
La terapia di gruppo permette di avviare un processo di assunzione di responsabilità che passa attraverso degli step, delle tappe precise, che potremmo riassumere così:
- il paziente si accorge che gli altri osservano il suo comportamento
- le reazioni e le parole degli altri rappresentano dei feedback che consentono al paziente di capire quali sono gli effetti del suo comportamenti sulle persone che ha intorno. Egli si rende conto che ciò che fa e che dice produce delle conseguenze
- Progressivamente, il paziente ha la possibilità di osservare e capire in che modo il suo comportamento influenza l’opinione degli altri su di lui, come quello che fa dà forma alle idee degli altri
- In questo modo, il paziente arriva alla consapevolezza di come i tre passi precedenti modellino anche la sua percezione, il suo modo di vedere sé stesso. In poche parole, l’opinione che ha di sé
Il terapeuta può intervenire all’interno di questo processo, focalizzando l’attenzione su alcune dinamiche di gruppo, su quel che sta accadendo qui e ora, all’interno della stanza di terapia, che diviene riflesso di quel che accade fuori, nel mondo, nella vita quotidiana.
Terapia individuale, libertà e responsabilità
Naturalmente, anche nella terapia individuale è possibile aiutare il paziente a prendersi la responsabilità di sé.
Per esempio, è importante porre l’accento sull’impegno necessario per portare avanti un percorso di psicoterapia efficace. Il terapeuta non è un guaritore, ma qualcuno che ci aiuta ad andare incontro alla guarigione, consentendoci di:
- cambiare prospettiva sulla realtà
- esplorare nuove possibilità
- trovare dentro noi stessi le risorse necessarie.
Il percorso funziona perché è il paziente ad agire.
Eventuali ritardi, la volontà di nascondere oppure distorcere informazioni, sentimenti ed emozioni, dimenticare di svolgere un dato esercizio, di prendere nota di un sogno etc. sono tutte azioni che ricadono sotto la responsabilità del paziente e che incidono sul buon andamento del percorso.
“L’assunzione di responsabilità è un primo passo essenziale nel processo terapeutico. Una volta che i singoli riconoscono il proprio ruolo nel creare le rispettive difficili situazioni esistenziali, si rendono anche conto che loro, e soltanto loro, hanno il potere di cambiare questa situazione”.
Così riassume Yalom.
Tutto questo non è affatto semplice. Rileggere la propria esistenza alla luce della responsabilità che abbiamo rispetto alla sofferenza che viviamo, può turbare e scatenare emozioni negative come il rimpianto. Si potrebbe avere l’impressione di aver sbagliato, sentirsi in colpa, guardare al passato con tristezza.
Di fronte a una simile situazione, il terapeuta è chiamato a intervenire per aiutare il paziente a riformulare quel rimpianto, trasformandolo in qualcosa di positivo.
Lo sguardo non deve essere rivolto al passato, a quel che è già stato e che non può essere cambiato. Bisogna piuttosto ancorarsi al presente, capire come vivere l’oggi in modo che nel tempo futuro non ci si guardi indietro con dolore, ma con gioia.
Responsabilità e decisioni. Mai sostituirsi al paziente
Prendere decisioni è faticoso, ci mette in gioco, genera in noi uno stato di ansia e di tensione. Tanto che, talvolta, abbiamo la tentazione di delegare, lasciare che siano gli altri a scegliere per noi.
Sul fronte opposto c’è il terapeuta che potrebbe avere un’altra tentazione: quella di suggerire una facile soluzione oppure sostituirsi al paziente e decidere al suo posto.
Questo non dovrebbe mai accadere.
Innanzitutto perché il terapeuta non ha gli strumenti necessari per valutare la situazione in modo completo. Egli non può sapere quali saranno le conseguenze di determinate prese di posizione. La sua opinione si basa esclusivamente su elementi transitori e non del tutto affidabili cioè sui racconti del paziente stesso, che possono essere alterati dalle emozioni e dai ricordi.
Ma mettendo da parte questa prima osservazione, c’è un altro motivo per il quale il terapeuta non dovrebbe mai dare consigli che spingono il paziente verso l’una o l’altra strada che ha davanti.
Farlo significherebbe deresponsabilizzarlo e fare sì che egli cerchi all’esterno di sé una motivazione al proprio comportamento.
Questa regola generale di comportamento prevede un’eccezione.
Ci sono dei casi, infatti, in cui il terapeuta è tenuto a esercitare il proprio ascendente sul paziente e a spingerlo in una direzione piuttosto che in un altra. È quando ci si trova di fronte a evidenti maltrattamenti, relazioni disfunzionali e tossiche che ledono la dignità e il benessere della persona, mettendola spesso anche in pericolo.