Nella maggioranza dei casi, la scelta di intraprendere una psicoterapia è dettata da un bisogno: superare una difficoltà, alleviare dei sintomi che causano sofferenza e disagio, compromettendo il nostro benessere e impedendoci di vivere la nostra quotidianità.
Si cerca, in buona sostanza, di ritrovare la propria serenità.
Dopo il primo contatto con il terapeuta, prende avvio un percorso che si fonda sulla costruzione di un legame, un rapporto solido con il professionista che con la presa in carico del paziente si assume una precisa responsabilità: consentirgli di riconquistare il proprio benessere nel più breve tempo possibile.
Quando la terapia fallisce: il drop out cioè l’abbandono da parte del paziente
A scanso di equivoci, dobbiamo subito sfatare un mito, una falsa credenza riguardo la terapia:
Non è vero che la psicoterapia funziona soltanto quando è lunga, protratta per anni, fino allo sfinimento.
Pensiamo a un approccio come la terapia breve strategica, i cui protocolli di intervento consentono di arrivare a una risoluzione delle principali problematiche psicologiche in tempi ridotti, con un numero contenuto di sedute.
È vero, invece, che non è possibile stabilire fin dal principio quanto durerà una terapia poiché ogni percorso è unico nel suo genere e non se ne possono prevedere gli sviluppi a priori. Possono esserci scarti, improvvise prese di coscienza ma anche momenti di stallo, resistenze, regressioni.
È un viaggio di cui si conosce, forse, l’inizio e di cui si intravede, all’orizzonte, la conclusione. Ma l’itinerario nel mezzo è tutto da scoprire, con difficoltà sconosciute e panorami inediti.
La psicoterapia non è un procedimento lineare, che va da un punto A ad un punto B seguendo una linea retta. È più tortuosa, complessa e, talvolta, può rivelarsi anche fallimentare.
Vi sono anche casi in cui il paziente, dopo soltanto alcuni incontri, decide di non voler proseguire, smettendo di presentarsi agli appuntamenti stabiliti. È quello che in gergo chiamiamo drop out, la brusca interruzione della terapia, l’abbandono del paziente.
Le motivazioni di una simile scelta possono essere le più varie.
Potrebbe dipendere da forti resistenze del paziente rispetto alla terapia stessa, oppure da un transfert negativo cioè dalla proiezione di forti sentimenti negativi relativi al proprio vissuto personale e relazionale sul terapeuta.
Nel momento in cui il paziente manifesta la volontà di lasciar perdere, il terapeuta ha il compito di interpretare questa richiesta, comprenderne le motivazioni profonde e aiutarlo a prendere consapevolezza di quel che c’è dietro il drop out. Se, nonostante tutto, il paziente è deciso ad andare via, il terapeuta deve poterlo lasciar andare serenamente.
La psicoterapia protratta all’infinito
In alcuni casi, potrebbe verificarsi anche la situazione opposta, cioè quella in cui la terapia prosegue senza limiti, andando avanti all’infinito, senza concludersi mai.
Tra terapeuta e paziente si instaura una sorta di circolo vizioso che impedisce di arrivare al momento risolutivo rappresentato dalla conclusione della terapia.
Un terapeuta ancora in esperto potrebbe avere delle difficoltà a porre fine al percorso, facendo quindi leva sulla dipendenza che il paziente sviluppa nei suoi confronti per tenerlo legato a sé.
Il professionista che si comporta in questo modo spesso non ha risolto alcuni aspetti del proprio vissuto e ricerca una gratificazione narcisistica nel rapporto con il paziente, che viene privato della propria autonomia, reso dipendente.
Si crea una dinamica di collusione tra i due membri della coppia terapeutica.
Da un lato, il paziente rimane come aggrappato al terapeuta, che costituisce un punto di riferimento. Non va più verso una crescita, una presa di consapevolezza di sé, un’assunzione di responsabilità della cura di sé stesso.
Dall’altro, il terapeuta si appaga di questa situazione, traendo soddisfazione dal fatto di sentirsi indispensabile, importante, sfruttando il proprio ascendente e il proprio potere sul paziente.
Per impedire che questo accada, è necessario che ci sia un supervisore più esperto, in grado di valutare l’operatore del professionista e di aiutarlo a stabilire dei confini.
Quando la terapia giunge a conclusione
Se la terapia procede positivamente, è del tutto normale che, a un certo punto, si arrivi a una conclusione. Questo compimento, però, non coincide esattamente con quanto prospettato all’inizio dal paziente cioè con la risoluzione del sintomo, il ritrovamento del benessere.
Quando si decide di cominciare questo percorso, l’obiettivo primario è sempre quello di superare un disturbo egodistonico – qualcosa che turba la nostra serenità, come l’ansia, gli attacchi di panico, i disturbi psicosomatici. Solitamente, nel giro di 3 o 4 mesi dall’inizio della terapia, si riesce già ad alleviare questi sintomi, acquisendo e imparando a mettere in atto delle tecniche che consentono di gestire questo genere di problematiche.
Nonostante il raggiungimento di questa meta, si decide comunque di andare oltre, di proseguire il viaggio all’interno di noi stessi, l’esplorazione di quel mondo profondo che fino a questo momento non abbiamo preso in considerazione.
Il sintomo, infatti, rappresenta una sorta di segnale, un campanello d’allarme che ci mette in guardia e ci invita a entrare in contatto con il nostro mondo interiore. Esso ci consente di portare alla luce questa realtà sotterranea, per cominciare a conoscerla più da vicino. Quando questo avviene, la terapia acquisisce un altro significato e valore, degli obiettivi più profondi e strutturali.
Non serve più soltanto a dare sollievo.
Diventa quel genere di percorso che serve a prendere consapevolezza di sé e delle proprie risorse e ad acquisire la capacità di prendersi cura della propria interiorità.
Paziente e terapeuta scelgono insieme qual è il momento giusto per porre fine al percorso. Di solito, si comincia a parlarne in anticipo, prendendosi alcune sedute di tempo per poter elaborare il lutto del futuro distacco. Quello della separazione è un momento molto carico a livello emotivo, di profondo significato.
Esso stesso ha un valore terapeutico e curativo per il paziente.
Spesso, infatti, nel corso della propria vita ci si è trovati a dover affrontare un brusco distacco, un abbandono immotivato. Ci si è sentiti soli, lasciati a sé stessi, senza amore né spiegazioni.
La conclusione della terapia si configura come un distacco progressivo e non traumatico, qualcosa a cui si arriva preparati. È un momento investito di significato, carico di empatia e comprensione. Rappresenta un modo per staccarsi dalla figura di riferimento, che viene assimilata a quella di un genitore, ritagliandosi un proprio spazio di indipendenza, recuperando appieno la propria autonomia.
Non è un taglio, uno strappo violento e incomprensibile.
È un modo per aprirsi alla vita.
Nel corso dell’ultima seduta, il terapeuta potrebbe offrire una interpretazione conclusiva. Quasi un aforisma che, in poche parole, riassume il senso dell’intero percorso affrontato insieme. È una frase che soltanto il paziente può comprendere poiché è espresso secondo quel linguaggio, quei codici, quelle parole chiave a cui ha dato forma insieme al terapeuta.
Spesso, l’interpretazione conclusiva si configura come un insight molto potente, una comprensione improvvisa, un’intuizione.
Questo non è un addio.
Per evitare di cadere nella trappola di una dipendenza, il terapeuta non si negherà al paziente quando questi avrà bisogno di supporto. Egli lo rassicura rispetto alla possibilità di rivolgersi a lui in un secondo momento. La sua porta sarà sempre aperta.
Molto spesso, è dopo la fine di una terapia che si vedono i risultati più grandi del percorso. Quando si chiude il ciclo, infatti, il paziente interiorizza il terapeuta e comincia a mettere in atto quelle modalità che il professionista gli ha trasmesso per prendersi cura di sé.