“Ogni bambino ha il legittimo bisogno di essere guardato, capito, preso sul serio e rispettato dalla propria madre”

(Il dramma del bambino dotato e la ricerca del vero sé – Alice Miller)

In queste parole, dense di significato, si potrebbe riassumere il pensiero di Alice Miller, psicologa e psicoanalista di origini svizzere, che si è dedicata con grande attenzione al tema degli abusi psicologici e fisici inflitti ai bambini e sulle conseguenze di quelle esperienze nella formazione dell’identità dell’individuo.

La posizione di Alice Miller, presentata nel libro Il dramma del bambino dotato e la ricerca del vero sé, capovolge totalmente il punto di vista assunto normalmente dalla psicoanalisi ortodossa, che prende le parti dell’adulto e stigmatizza il bambino, considerandolo unico responsabile delle esperienze negative vissute nel corso dell’infanzia.

Attraverso le pagine de Il dramma del bambino dotato e la ricerca del vero sé, Alice Miller descrive l’infanzia come il terreno fertile in cui vengono piantati i semi del disagio futuro, la matrice da cui si origina la sofferenza vissuta in età adulta.

In particolare, secondo la Miller, bisogna osservare il tipo di rapporto che si instaura tra il bambino e i suoi genitori, le figure di riferimento che dovrebbero prendersi cura di lui, amarlo e accudirlo.

Il dramma del bambino dotato ovvero il bambino che si adatta ai bisogni dei genitori

Innanzitutto, partiamo dal titolo.

Chi è il bambino dotato?

Il bambino dotato è il bravo bambino, il figlio modello, orgoglio di mamma e papà. Quello che non grida, non fa capricci, non mette in imbarazzo i genitori, sa prendersi cura dei fratelli più piccoli, se ce ne sono. Quello educato a comportarsi sempre bene nei confronti degli adulti.

Quasi un adulto in miniatura.

Ebbene, questo bambino – che da una prospettiva superficiale potrebbe sembrare un figlio ideale – in realtà, secondo la teoria della Miller, è il risultato di sottili violenze psicologiche, prevaricazioni, maltrattamenti di vario tipo.

È un bambino che nel volto della madre (e del padre) non ha trovato uno specchio in cui riconoscersi, ma ha letto soltanto i bisogni dell’adulto che si prendeva cura di lui o lei.

Il fatto è che, quando siamo piccoli, siamo estremamente ricettivi, sensibili, capaci di entrare in sintonia e di percepire i bisogni di coloro che abbiamo vicino, a partire dai nostri genitori. E siamo indotti a cercare di soddisfare le loro aspettative, specie quelle inconsce.

Quelle attese, però, hanno un forte peso psicologico, che ha a che fare con la rinuncia a noi stessi, ai nostri bisogni fondamentali, a partire da quello di essere amati così come siamo, in modo incondizionato.

Per conformarci alle attese di mamma e papà, perdiamo la nostra integrità originaria. Non abbiamo la possibilità di provare determinati sentimenti. Soffochiamo le nostre emozioni spontanee, perché sono considerate disdicevoli o eccessive dagli adulti, che non sono in grado di gestire determinate reazioni (la rabbia, la tristezza, l’indignazione, l’invidia, la paura).

La conseguenza di tutto questo è il dramma del bambino dotato: quello di scollegarsi da sé stesso, perde la possibilità di sviluppare in modo integrale la propria personalità.

Finire con il trovarsi incastrato in un Falso Sé: un’immagine preconfezionata, falsa, costruita per soddisfare le richieste che arrivano dagli altri.

Come si costruisce un bambino dotato?

La Miller racconta un semplice aneddoto per spiegare in che modo “nasca” un bambino dotato. Quali comportamenti e atteggiamenti dei genitori plasmano questi figli.

La scena descritta è piuttosto banale a prima vista. Ma ha qualcosa di drammatico se, ruotando la prospettiva, smettiamo i panni dell’adulto per metterci in quelli del bambino che, di fatto, subisce un maltrattamento.

C’è una giovane coppia che va a fare una passeggiata con il figlio al seguito. È un bambino piccolo, avrà circa due anni. La madre e il padre camminano tranquilli, tenendo un ghiacciolo in mano. Il figlioletto, invece, ne è privo.

Come è naturale che sia, il bimbo manifesta a suo modo il desiderio di avere anche lui un gelato da gustare. La madre e il padre, a turno, gli offrono di fargli assaggiare il proprio. Lui, però, rifiuta e continua a tendere la sua manina verso l’oggetto del desiderio, che gli viene negato.

Di fronte al rifiuto, il bambino si mette a piangere disperato. Le lacrime sono il suo linguaggio. Non ha parole per esprimere la frustrazione e il disagio che prova.

Il problema, in questa situazione, non è il rifiuto in sé.

È quel che accade subito dopo. Il pianto sconsolato del bambino non viene compreso e accettato dai genitori che, pensando di tranquillizzare il figlio, ridono di quel che sta accadendo. Il risultato è che il bambino si sente svilito nel suo legittimo desiderio di essere come gli altri.

Non viene preso sul serio, non viene accolto.

Quello che agli occhi di un adulto è una sciocchezza, nella percezione di un bimbo piccolo può essere un vero e proprio dramma. Un’esperienza fortemente negativa che si incide sulla psiche e che, sommata ad altri episodi simili (o peggiori) condiziona pesantemente lo sviluppo del piccolo e il suo modo di relazionarsi con gli altri.

Il bambino dotato da adulto

Una volta raggiunta l’età adulta, quel bambino dotato rischia di essere predisposto alla depressione.

Oppure di indossare una maschera di grandiosità, che nasconde il suo profondo vuoto interiore, la fame d’amore non soddisfatta.

Quel “bambino modello” sarà un adulto incapace di entrare in contatto con il suo mondo interiore, di vivere in modo consapevole le emozioni e i sentimenti che gli sono stati negati durante l’infanzia.

Inoltre, se metterà su famiglia e avrà dei bambini, probabilmente metterà in atto gli stessi comportamenti che ha subito dai propri genitori, ripetendo lo schema che ha interiorizzato. Egli, infatti, potrà assumere una posizione dominante, di forza, soltanto con dei bambini, instaurando un circolo vizioso che potrà essere interrotto soltanto attraverso un percorso di ricerca e riscoperta del Vero Sé.

 La riscoperta del Vero Sé in psicoterapia

Come spiegato da Alice Miller nel suo libro, molta della sofferenza provata da adulti ha le sue radici nelle esperienze vissute nell’infanzia, nel rapporto con i propri genitori.

Per ritrovare il benessere e sciogliere i nodi, però, non è sufficiente avere coscienza della propria vicenda infantile. Non basta sapere che durante l’infanzia si è stati esposti a comportamenti che hanno leso la nostra dignità, il nostro legittimo diritto a essere noi stessi.

Questa, infatti, sarebbe una cognizione puramente intellettuale e quindi superficiale.

Piuttosto, abbiamo bisogno di vivere le emozioni che abbiamo soffocato per non disattendere le pesanti aspettative dei nostri genitori.

Abbiamo bisogno di sentire che quelle emozioni sono valide, accettabili, che possono avere uno spazio nel nostro orizzonte emotivo. Abbiamo bisogno di sentire che possiamo provare rabbia, tristezza, invidia e che non c’è nulla di male in quello che proviamo dentro di noi.

In questo può aiutarci molto la psicoterapia.

Naturalmente, non si può intraprendere questo tipo di percorso pensando di poter recuperare il mondo perduto dell’infanzia. Né tantomeno, nell’illusione di riscrivere il proprio passato. Quel che è accaduto, non può essere cambiato. Ma è possibile andare avanti, sganciarci da ciò che ci fa soffrire, metterselo alle spalle, elaborando il lutto per la perdita.

Nel capitolo intitolato “La situazione dello psicoterapeuta”, la Miller riflette anche sul fatto che spesso chi intraprende la professione dello psicoterapeuta è stato un bambino dotato, usato dai propri genitori – sempre in modo inconsapevole – per compensare le proprie carenze emotive ed affettive, quasi come un cuscinetto.

È proprio perché ha fatto quest’esperienza nell’infanzia, che il terapeuta ha sviluppato la sua peculiare sensibilità ed empatia, la capacità di comprendere il dolore altrui.

Quel che ha vissuto gli consente di sapere esattamente cosa significhi rinunciare al proprio Sé Autentico, nascondersi dietro una maschera.

Tuttavia, il terapeuta potrà svolgere bene il proprio lavoro soltanto dopo aver elaborato appieno i sentimenti di rabbia, frustrazione e senso di abbandono che si accompagnano alla condizione appena descritta. In caso contrario, infatti, c’è il rischio che finisca con il proiettare queste emozioni sui pazienti, usandoli a proprio vantaggio. Il pericolo, infatti, è che possa fare leva sulla dipendenza che si sviluppa tra terapeuta e paziente esattamente come tra genitore e bambino.

 

 

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