“Dio, concedimi la serenità di accettare le cose che non posso cambiare, il coraggio di cambiare le cose che posso, e la saggezza per conoscere la differenza”
Queste parole, forse, ti saranno familiari. Potresti averle sentite pronunciare oppure averle lette in qualche libro. Si tratta della cosiddetta Preghiera della serenità, che spesso viene insegnata ai membri dei gruppi di auto-aiuto, in particolare a coloro che aderiscono agli Alcolisti Anonimi.
In poche righe, questo brano riesce a sintetizzare dei concetti estremamente importanti per la nostra salute mentale, che ritroviamo all’interno delle pubblicazioni di esponenti della Nuova Coscienza Emergente, primo tra tutti Ekhart Tolle, grande maestro spirituale, che ha dato forma al suo pensiero nel volume Il Potere di Adesso.
Le due frecce del dolore
Per comprendere appieno il senso di queste parole, il loro significato e valore profondo, dobbiamo partire da un famoso discorso del Buddha dedicato al dolore.
“Meditatori, sia l’uomo ignorante che l’uomo saggio che percorre il sentiero percepiscono sensazioni piacevoli, spiacevoli e neutre. Ma qual’è la differenza tra i due, ciò che li caratterizza?
Facciamo l’esempio di una persona che, trafitta da una freccia, ne riceva una seconda, sentendo quindi il dolore di entrambe le ferite. Ecco, la stessa cosa accade quando un ignorante, che non conosce l’insegnamento, viene a contatto con una sensazione spiacevole e – come reazione – si preoccupa, si agita, piange, grida, si batte sul petto, perde il senso della realtà. Quindi egli fa esperienza di due dolori: quello fisico e quello mentale”.
Il grande maestro utilizza una metafora, dicendo che la sofferenza sperimentata da ciascuno di noi è prodotta da due frecce.
La prima freccia ovvero gli eventi dolorosi della vita
La prima freccia è inevitabile poiché rappresenta l’evento negativo che ci colpisce e ci fa male, lasciando su di noi un segno.
Può trattarsi, per esempio, della fine di una storia d’amore a causa dell’abbandono del partner.
Venire lasciati dalla persona amata, con cui magari abbiamo trascorso una lunga parte della nostra vita, provoca una grande sofferenza, in chiunque.
Siamo cresciuti insieme, abbiamo affrontato tante peripezie l’uno accanto all’altra, abbiamo riso e pianto, fatto sogni e progetti, guardato al futuro con speranza.
Abbiamo investito tante energie nella relazione e poi, all’improvviso, l’altro se ne va.
È normale, in una situazione del genere, provare un senso di solitudine e di vuoto, una profonda tristezza.
È una sofferenza sana, del tutto fisiologica.
Proviamo sentimenti simili quando perdiamo una persona cara e dobbiamo affrontare un lutto, quando riceviamo un’offesa, quando incontriamo sul nostro cammino delle difficoltà o ci accadono degli eventi che sconvolgono la nostra quotidianità, facendoci perdere l’equilibrio.
In casi come questi, non c’è da preoccuparsi per il dolore, ma per la sua eventuale assenza.
La freddezza o l’incapacità di provare emozioni di fronte a situazioni di questo genere, infatti, è indice e segnale di una struttura di personalità scissa, compromessa.
La seconda freccia ovvero il dolore che ci infliggiamo da soli
La seconda freccia, invece, potrebbe essere schivata poiché, restando ancora nell’ambito della metafora, siamo noi stessi a scoccarla.
Essa ha a che fare non tanto con quello che accade al di fuori di noi, con gli eventi imprevedibili che non siamo in grado di controllare.
La seconda freccia è relativa a quello che accade dentro di noi o meglio a come reagiamo di fronte alle avversità della vita, infliggendoci ancora più sofferenza di quella che avremmo sperimentato se fossimo stati in grado di lasciar andare.
Accade spesso, infatti, che ci fissiamo sull’evento che ci è accaduto, focalizzando il nostro sguardo sul negativo. Pensieri cupi e angosciosi irrompono nella nostra mente, occupandola totalmente.
Cominciamo a ruminare, ad arrovellarci senza sosta.
Ecco che si genera un secondo tipo di sofferenza, la sofferenza mentale, del tutto patologica.
A partire da un atteggiamento nevrotico caratterizzato da un pensiero ossessivo-compulsivo, questa situazione può condurre a un assetto mentale che sfocia nella depressione.
L’importanza di lavorare sull’accettazione
Questo ragionamento ci porta a comprendere un fatto fondamentale: gran parte della sofferenza e del dolore che proviamo è evitabile.
Essa, infatti, non dipende da ciò che ci accade (un lutto, una malattia, un feroce litigio con il partner) ma da come gestiamo quel che ci accade.
Dipende da come viviamo quegli eventi.
È per questo che dovremmo lavorare sull’accettazione.
“Dio, concedimi la serenità di accettare le cose che non posso cambiare, il coraggio di cambiare le cose che posso, e la saggezza per conoscere la differenza”
Accettare quello che non possiamo cambiare non significa rimanere passivi di fronte alla realtà, in atteggiamento da sconfitti.
Accettazione vuol dire non cadere nella trappola del pensiero ossessivo e distorto, che si attorciglia su sé stesso come un serpente che ci soffoca tra le sue spire.
Come ci insegnano i grandi maestri orientali, l’unico modo per soffrire il meno possibile è stare a contatto con il dolore, affrontarlo e attraversarlo, percependolo per quello che è.
Occorre praticare consapevolezza, che ci consente di non generare pensieri distorti e ossessivi e soprattutto di non identificarci con essi.
Purtroppo, infatti, quando non c’è consapevolezza, la nostra mente reagisce alla situazione stressante generando una realtà alternativa, una versione mistificata degli eventi.
A quel punto, perdiamo completamente di vista il quadro generale, non abbiamo più la capacità di valutare le cose nel loro insieme, in modo globale e unitario.
Vediamo soltanto il negativo: comincia il melodramma.
Cosa fare allora?
La via della consapevolezza
Ritornando a quanto espresso dalle preghiera della Serenità, bisogna imparare a distinguere tra ciò che possiamo cambiare e ciò che invece sfugge totalmente al nostro controllo.
Di fronte a un problema è normale cercare una soluzione praticabile.
Se ricevo la diagnosi di una malattia, mi impegnerò per cercare la cura più adeguata, rivolgendomi ai dottori, prendendo le medicine previste dalla terapia.
Se vengo aggredito o offeso in qualche modo, cercherò di difendermi e tutelarmi.
Se vengo licenziato, cercherò un nuovo posto di lavoro, un impiego che possa permettermi di mantenere me stesso e garantire serenità alla mia famiglia.
Queste sono tutte situazioni in cui posso agire, intervenire in prima persona, assumendomi la responsabilità di quel che accade.
Ma in alcuni casi, ci troviamo di fronte a situazioni molto più grandi di noi, cose su cui non abbiamo alcun controllo, che non dipendono dalle nostre scelte o da quanto ci impegniamo ad aggiustare le cose.
Penso, per esempio, a qualcosa di irreversibile come la morte di una persona cara oppure alla fine di una lunga relazione.
Cose come queste non possono essere cambiate.
In casi del genere, è molto meglio saper accettare cioè essere in grado di non reagire dal punto di vista del pensiero.
Non è rassegnazione, ma capacità di accogliere quel che è accaduto, adattandoci alla nuova realtà, evitando di aggiungere dolore a dolore.
L’accettazione non è qualcosa di immediato: è la conclusione di un processo che può avvenire in modi diversi.
Un percorso di psicanalisi può aiutare l’individuo a sviluppare la necessaria consapevolezza. In questo contesto, l’analista accompagna e sostiene il paziente, aiutandolo a non cadere nel meccanismo perverso di nevrosi ossessive e deleterie.
Lo stesso risultato può essere ottenuto anche con la terapia a indirizzo cognitivo-comportale, nell’ambito della quale si lavora sugli schemi cognitivi disfunzionali, agendo sui pensieri negativi ricorrenti, nell’ottica di favorire il benessere e l’igiene mentale.
Nell’ambito delle pratiche di meditazione, invece, viene insegnata la non reazione, che viene definita presenza.
Se si è presenti a sé stessi, si riesce ad avere un maggior controllo sulla propria mente. Se si rimane nel qui e ora del tempo presente, senza oscillare tra passato e futuro, si può impedire che i pensieri prendano il sopravvento e offuschino la nostra lucidità.
La via per imparare a soffrire meno è lavorare su sé stessi e prendere consapevolezza.