Manuali e saggi di psicologia non rappresentano l’unica fonte a cui rivolgersi per approfondire la conoscenza della psiche.
I grandi autori del passato, come Dostoevskij e Kafka, veri giganti della letteratura occidentale, hanno saputo mettere su carta personaggi di grande spessore psicologico, trattando temi e questioni ancora oggi di grande attualità.
La letteratura, il cinema, la filosofia, persino l’arte ci forniscono spunti di riflessione importanti per comprendere meglio alcune dinamiche profonde, per arricchire il nostro bagaglio di conoscenze sulla natura umana nelle sue diverse declinazioni.
A questo straordinario bacino di risorse, fatto di immagini, simboli e metafore si rivolge la psicoterapia esistenzialista, approccio che ho adottato nella mia pratica clinica quotidiana, accanto a quello psicanalitico.
È seguendo questo spirito che oggi vorrei proporvi una lettura personale, di stampo psicologico, di un romanzo contemporaneo di grande interesse.
Si tratta di “L’avversario” di Emmanuel Carrère, pubblicato ormai oltre vent’anni fa, nel 2000.
L’Avversario: genesi del romanzo
L’Avversario è un romanzo-verità.
Ciò significa che la storia raccontata da Carrère non è fittizia, frutto della fantasia dell’autore, ma la cronaca di una vicenda reale: il caso di Jean-Claude Romand.
Cos’era accaduto?
Il 9 gennaio 1993, Jean-Claude si era reso reso responsabile di una vera e propria strage familiare, uccidendo prima la moglie con un corpo contundente (un mattarello) poi i figli piccoli a colpi d’arma da fuoco e, per concludere, aveva massacrato anche i propri anziani genitori, dopo aver tranquillamente pranzato a casa loro.
Venendo a conoscenza del fatto attraverso i giornali, Carrère ne rimane colpito, tanto da decidere di contattare Romand e di seguire il lungo processo che si conclude con una condanna all’ergastolo dell’omicida.
L’intento dell’autore francese non è soltanto quello di ricostruire il fatto in sé. Egli intende piuttosto cercare di fare luce sulla personalità di Jean-Claude Romand, di comprenderne il movente, ciò che lo aveva spinto a compiere delitti tanto efferati.
Tutte le bugie di Jean-Claude Romand
Quando confessa i delitti e viene arrestato, Romand sostiene di aver agito in un raptus di follia, trascinato da un impeto irrazionale. In verità, però, a muoverlo è qualcos’altro e lo si comprende bene leggendo il romanzo.
Tutta la sua vita è stata soltanto un’enorme bugia.
Comincia a mentire all’epoca dell’università, facendo credere ai propri genitori di aver passato brillantemente gli esami in Medicina, quando in verità il suo percorso di studi si è interrotto alla fine del primo anno. Onde evitare le domande scomode di un compagno di corso, inventa di avere un tumore, un linfoma di Hodkin.
Questa nuova menzogna serve a coprire la prima e a destare pietà in tutti coloro che lo circondano, inclusa Florence Coret, cugina alla lontana di cui è invaghito e che riesce a sposare.
Romand riesce a convincere tutti di essere un medico molto affermato. A suo dire, l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) lo ha assunto come responsabile di un gruppo di ricerca sull’arteriosclerosi. E l’Università di Digione gli ha conferito un incarico di prestigio, assegnandogli una cattedra della facoltà di Medicina.
Tutte falsità architettate per nascondere una verità molto meno rosea.
In verità, egli trascorre le proprie giornate vagabondando, senza fare assolutamente nulla.
La bella casa in cui vive, l’alto tenore di vita che conduce sono frutto di mistificazioni e vere e proprie truffe ai danni di chi lo circonda. Approfittando della credulità di chi si fida di lui, attinge a piene mani dai conti correnti dei genitori, convince amici e parenti a fare presunti investimenti, ricavando così il denaro necessario a sostenere le proprie spese. Contrae anche ingenti debiti.
Ma nessuno sospetta dell’integerrimo dottore, marito di specchiata moralità e padre amorevole, che nel frattempo si è anche trovato una bella amante.
A un certo punto, però, il castello di carte costruito da Romand comincia a vacillare.
Un amico scopre che il suo nome non figura tra quelli dei dottori impiegati nell’OMS. L’amante gli chiede indietro i soldi che gli ha consegnato, ingolosita dalle sue promesse di redditizi ritorni sull’investimento che tardano ad arrivare.
L’immagine di perfezione di Romand si incrina. Sotto la maschera, emerge il suo vero volto.
È allora che l’uomo, sentendosi messo alle strette, decide di uccidere.
Le radici del male: la famiglia Romand e il doppio legame di Gregory Bateson
Attraverso una lettura attenta del romanzo, è possibile individuare e approfondire le complesse dinamiche psicologiche che sono alla base dell’agire di Romand, del suo comportamento.
Tali dinamiche trovano radice nel vissuto infantile del soggetto.
Pagina dopo pagina, ci rendiamo conto di quale influsso abbia avuto su di lui l’educazione impartitagli dalla sua famiglia, il modo in cui lo hanno cresciuto e, in particolare, gli schemi che ha introiettato fin da bambino.
Come ci insegna la teoria dell’attaccamento di Bowlby, i genitori (o coloro che ne fanno le veci) rappresentano le nostre prime e fondamentali figure di riferimento.
Il loro comportamento nei nostri confronti lascia un’impronta invisibile su di noi.
Non c’è alcun bisogno che i genitori siano “cattivi”. Molto spesso, essi non si rendono nemmeno conto dei “semi” che stanno piantando nella mente dei loro figli.
Lo fanno in modo inconscio, senza che vi sia un’intenzione malevola.
Poi, all’improvviso, dopo essere rimasti silenti per anni, quei semi fioriscono e danno frutto, manifestandosi sotto forma di dinamiche malate, di schemi mentali patogeni, di meccanismi distorti.
Senza i giusti strumenti per analizzare e interpretare quel che sta accadendo, si fa fatica a comprendere che una crisi potente e violenta come quella descritta da Carrére ha un’origine precisa, collocata nel passato, in quell’epoca remota che è l’infanzia di Jean-Claud Romand.
Bisogna guardare al bambino per vedere con precisione l’adulto.
Altrimenti, si rischia di classificare il gesto estremo dell’uomo che fa strage di tutti i propri familiari dopo averli ingannati per anni come qualcosa di insensato e folle, venuto fuori dal caos informe della realtà.
Tutto questo, in verità, ha una spiegazione, per quanto oscura e nascosta tra le pieghe dell’animo del nostro protagonista.
Ciò a cui faccio riferimento è la teoria del doppio legame (double bind), elaborata negli anni Cinquanta dallo psicologo e antropologo Gregory Bateson, membro fondatore della nota Scuola di Palo Alto, centro di ricerca che con i propri studi ha rivoluzione completamente l’approccio alla malattia mentale.
La teoria del doppio legame viene introdotta da Bateson nel volume “Verso un’ecologia della Mente”, dove l’autore spiega che tale fenomeno si verifica quando nella comunicazione tra due individui, legati da un vincolo affettivo molto forte e rilevante – come quello che si forma tra genitori e bambini – il piano del verbale e quello del non verbale entrano in contraddizione.
Detto in termini semplici, quello che viene detto non corrisponde a quanto espresso a livello fisico ed espressivo attraverso il tono della voce, i gesti, l’espressione del viso, la postura etc.
C’è un contrasto tra i due piani comunicativi che il figlio, soggetto “debole” della relazione, non può risolvere.
Pensiamo, per esempio, a un madre che dica al figlio “Vorrei fossi affettuoso con me!” mentre sfugge al contatto fisico, evitando abbracci e altre effusioni, rimanendo rigida o scansandosi quando il bambino si avvicina.
Jean-Claude finisce da bambino nel laccio del doppio legame, da cui non riesce a sciogliersi in alcun modo.
La sua, infatti, è una famiglia rispettabile e di solidi principi morali, riconosciuta in paese per l’integrità e rispettabilità dei membri. Jean-Claude deve comportarsi di conseguenza e non essere da meno, dimostrando di aderire ai valori condivisi dai suoi. I genitori gli insegnano che deve essere onesto e scrupoloso. La parola data va rispettata.
Ma questo sistema granitico di regole viene invalidato a causa delle condizioni cliniche della madre, che sembra soffrire di una strisciante depressione. Così viene lasciato intendere a Jean-Claude (senza dirlo, badiamo bene) che in alcuni casi è meglio tacere, che non sempre deve dire tutta la verità, che alcune cose si possono nascondere per amor suo, per non farla intristire o non darle un dispiacere.
È necessario, pur di tutelare la sua precaria salute.
Invischiato in questa trappola, Jean-Claude impara a mettere da parte emozioni e sentimenti, a rendersi opaco agli altri, per non farli soffrire, per non deluderli.
“Racconta che sua madre si angustiava per qualsiasi cosa, e lui ha imparato presto a nasconderle la verità per evitarle ulteriori preoccupazioni. Ammirava suo padre perché non lasciava trasparire le proprie emozioni, e si è sforzato di imitarlo. Bisognava che andasse sempre tutto bene, se non voleva che sua madre peggiorasse, e lui sarebbe stato davvero un ingrato a farla peggiorare per delle sciocchezze, piccoli dispiaceri da bambini, meglio nasconderli […] Da un lato gli avevano insegnato a non mentire, e questo era un dogma assoluto: un Romand ha una parola sola, un Romand è limpido e cristallino come acqua di fonte. Dall’altro però certe cose, anche se erano vere, non andavano dette. Non bisognava amareggiare gli altri, né vantarsi dei propri successi o delle proprie virtù”.
Così Carrére descrive quel che accadeva in casa Romand, quando Jean-Claude era soltanto un ragazzino.
Cortocircuito mentale e scollamento dalla realtà
Secondo Bateson e colleghi, la comunicazione distorta che dà vita al doppio legame pone le fondamenta per lo sviluppo della schizofrenia.
Con ciò non intendo dire che il protagonista de “L’avversario” sia uno schizofrenico.
Tuttavia, il suo comportamento denota sicuramente uno scollamento dal piano di realtà, caratteristica tipica della schizofrenia, disturbo mentale che si contraddistingue proprio per l’incapacità della persona di distinguere tra realtà e immaginazione, con una conseguente perdita di contatto con il mondo circostante.
La mente di Jean-Claude Romand a un certo punto sembra scollegarsi completamente, costruendosi una dimensione sua propria.
Il meccanismo del doppio legame crea un vero e proprio cortocircuito nella mente di chi lo vive durante l’infanzia poiché, di fatto, il modo in cui i nostri genitori ci parlano da bambini diventa la nostra voce interiore.
Se i messaggi che arrivano dalle mie figure di riferimento sono contraddittori, si apre una falla nel sistema, la mente va in tilt e non riesce più ad aderire al piano della realtà.
Si finisce col perdere completamente la misura delle cose.
Il rischio è quello di una deriva psicotica, con comportamenti squilibrati.
Talvolta, tutta questa sofferenza riemerge anche sotto forma di somatizzazioni o negli attacchi di panico improvvisi, picchi d’ansia che sembrano venire dal nulla.
Infatti, quando la mente non riesce a elaborare alcuni contenuti, questi vengono repressi e rimossi.
Ma il non detto non scompare.
Questi contenuti conflittuali riemergono alla coscienza per mezzo dei sintomi somatici con i quali il corpo dà voce alle emozioni soffocate, manifestando un disagio interiore che non ha altra via per venire alla luce e farsi vedere.
Quando un genitore, in modo del tutto inconsapevole, ci passa questa modalità di comunicare errata e patologica, si verifica anche un completo isolamento della persona. Proprio come avviene a Romand.
In apparenza, egli è perfettamente integrato nel tessuto sociale in cui vive, è un cittadino modello, stimato e benvoluto dai colleghi, con solide relazioni di amicizia.
In realtà, però, nessuno lo conosce davvero, nessuno sa chi sia in realtà nel profondo, quali siano i suoi pensieri e le sue emozioni.
È talmente scollato da tutto, che nemmeno lui si conosce.
L’Avversario: l’ombra negata che diventa diavolo
Prima di conclude, vorrei fare un’ultima osservazione sul titolo del romanzo. “L’Avversario” a cui fa riferimento Carrère è il Diavolo, l’angelo caduto, incarnazione per eccellenza del male e dell’oscurità.
Da un punto di vista psicanalitico, potremmo associare quest’immagine all’Ombra, ovvero l’insieme delle tendenze non sviluppate della nostra personalità, il lato oscuro della nostra psiche.
Quello di “Ombra” è un concetto elaborato da Jung, uno dei padri della psicanalisi tradizionale, che specifica anche che se trascurerai gli istinti (intesi come la parte più oscura d te), verrai umiliato dagli istinti.
Questo perché negare l’ombra, soffocare la nostra parte istintuale, significa darle ancora più potere su di noi, metterla in condizione di dominarci del tutto.
Se io non affronto le mie difficoltà, se non le elaboro, se non le lascio emergere e nego costantemente una parte di me, mettendola nel grande recipiente dell’ombra, non faccio che alimentarla.
Alla lunga essa prenderà il sopravvento sulla mia personalità.
Ecco che la dinamica del doppio legame si innesta anche su questa negazione degli aspetti più oscuri e conflittuali. E porta anche alle conseguenze terribili descritte ne “L’Avversario”.