Sembra paradossale, ma la mente se lasciata incustodita è portata a sospingere ognuno di noi verso il teatro del suo peggior incubo.
Inoltre, come tutti sappiamo, quando ci si trova in un incubo, non si è coscienti di esservi caduti dentro: il dormiente, infatti, scambia l’incubo per la vita reale.
Ma se per un momento il soggetto prende coscienza di trovarsi in un brutto sogno, ecco che può destarsi e liberarsene un po’ come succede a Neo nel bellissimo film “Matrix”.
Tale liberazione è possibile tanto per gli incubi esperiti durante il sonno tanto quanto per quelli mentali che si vivono ad occhi aperti nella vita di tutti i giorni.
La buona notizia quindi è che possiamo risvegliarci dal nostro incubo personale.
In questo video, vi spiego come.
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Le ferite-feritoie: vedere solo ciò che ci ha fatto soffrire in passato
In psicanalisi si usa la figura della ferita-feritoia per spiegare come ognuno di noi veda il mondo attraverso gli occhi delle proprie ferite aperte. Se consideriamo che percepiamo il mondo attraverso la nostra sensibilità e che ognuno di noi risulta particolarmente sensibile proprio nei punti in cui è stato ferito, ci rendiamo conto che rischiamo di non avere occhi se non per ciò che ci ha fatto soffrire.
Gesù ci mette in guardia contro questo pericolo con parole potentissime:
“La lampada del tuo corpo è l’occhio. Perciò se il tuo occhio è semplice, tutto il tuo corpo sarà luminoso. Ma se il tuo occhio è cattivo, tutto il tuo corpo sarà tenebroso. Se dunque la luce che è in te è tenebra, quanto grande sarà la tenebra?”
Gesù vuol dirci che la nostra felicità rimane strettamente legata al nostro modo di percepire il mondo.
L’occhio semplice indice un occhio che vede lo cose come sono, senza aggiungervi le proiezioni del passato. Indica un modo non paranoico, non distorto di percepire le cose e le persone. L’occhio semplice è luminoso perché è simplex, cioè senza pieghe che diano rifugio all’ombra. La spiritualità dunque non è complicata, complex, con pieghe. Ma vive nella luce dove tutto è già spiegato, senza pieghe, semplice.
Ecco perché un vero maestro non riempie ma svuota.
Ecco perché spiegare è un processo di sottrazione, non di aggiunta.
Ecco perché la consapevolezza e la felicità non si ottengono nello sforzo di incamerare sempre più informazioni ma lasciando andare le false convinzioni del passato e disimparando.
Proviamo a calare questi meccanismi all’interno di un esempio clinico, concreto.
Alcuni pazienti tendono a interpretare diversi contesti relazionali sempre attraverso una medesima e dolorosa chiave di lettura. Un soggetto può sentirsi trattato ingiustamente dai colleghi a lavoro, dalla moglie e dai figli in famiglia e dai membri della terapia di gruppo.
Ci accorgiamo di andare verso il disagio mentale proprio quando non vediamo più le differenze tra le diverse sfere della vita.
In questi casi, metto in gioco una formula ironica ma allo stesso tempo profonda, usando un vecchio detto romano: “Dopo tre, sei te”. Quando il tentativo ha successo, il paziente sorride e ammette che per lui c’è anche un quattro, un cinque e un sei. In tal modo, la coppia terapeutica comincia a vedere e a liberarsi da quella ridondante e inquietante strettoia percettiva.
Un’allucinazione emotiva distaccata dalla realtà
Tali sbilanciamenti interpretativi prendono forma attraverso tre meccanismi cognitivi.
Primo, la persona non si lascia mai sfuggire nessun elemento che risuoni con le sue ferite emotive.
Secondo, tali elementi producono nel soggetto un’eco amplificata.
Terzo, il soggetto tende sistematicamente a trascurare tutti gli altri elementi presenti nel campo percettivo.
In altre parole, come già detto, il soggetto non ha occhi se non per ciò che lo ha già ferito in passato. Questo fenomeno ci dice che quasi quasi non possiamo soffrire se non per ciò per cui abbiamo già sofferto. Come è facile intuire, l’invasività di tale schema mentale risulta direttamente proporzionale all’intensità del trauma subito.
La definizione stessa di trauma indica infatti un evento doloroso che ferma il tempo all’interno di una ripresentificazione del passato, all’interno di una reiterazione cieca delle stesse percezioni distorte. Tale ritorno del passato può agire in modo leggero in persone che non siano state segnate da traumi particolarmente profondi, mentre in altri casi può agire in modo massiccio, fino a trascinare la persona in una sorta di allucinazione emotiva che si distacca profondamente dal piano di realtà.
Quest’ultima condizione porta il soggetto in una condizione drammatica di tipo psicotico, In questi casi purtroppo si precipita in un incubo da cui sarà molto difficile risvegliarsi.
Il Karma e il transfert: il passato che incombe sul presente
Questo ritrovarsi continuamente davanti alle stesse prove, agli stessi meccanismi e alle stesse dinamiche relazionali, nelle tradizioni orientali viene legato al concetto spirituale di Karma. In occidente, invece, all’interno della tradizione psiconalitica lo stesso fenomeno è stato approfondito in una prospettiva più marcatamente relazionale attraverso il costrutto del transfert.
In altri filoni psicoterapeutici si usano i termini di fantasia relazionale prevalente, mandato familiare o schema cognitivo disfunzionale.
Parliamo di concetti certamente non sovrapponibili, ma che contengono uno stesso macro-elemento in comune: l’incombere in modo più o meno opprimente del passato sul presente.
Per questo, Gesù ammoniva i discepoli dicendo: “Nessuno che pone mano all’aratro e poi si volta indietro è adatto al regno di Dio”.
Con queste parole, il maestro dei maestri spiegava come non ci sia pace per coloro nei quali le percezioni del passato dominano su quelle del presente. In tal senso Jung affermava che i traumi rimossi e non elaborati determineranno il corso della nostra vita, ma noi li chiameremo destino.
Occorre notare infatti che gli elementi traumatici che si trovano alla base delle diverse distorsioni percettive risultano perlopiù rimossi per cui il soggetto non trova in sé stesso nessun appiglio per sollevare il velo di Maya del proprio sogno d’angoscia.
Il soggetto cerca di risolvere il proprio dolore attraverso gli stessi presupposti che lo hanno generato per cui più lotta e più rimane impigliato nelle trame dei propri schemi mentali patologici. L’unica salvezza per lui è poter vedere il problema da un altro punto di vista. Ma tale inedito punto di vista deve esserci necessariamente donato dall’esterno. Questo è il significato simbolico del mito di Perseo e Medusa. Ciò che permette all’eroe di abbattere il mostro della pesantezza e non esserne trasformato nella statua di sé stesso è la possibilità di affrontarlo a una nuova prospettiva.
Se siete interessati ad approfondire questo bellissimo mito esoterico, vi faccio presente ce n’è uno proprio dedicato all’argomento.
Per uscire dalla prigione del proprio incubo, il soggetto ha bisogno di interiorizzare dall’esterno un nuovo punto di vista sulle cose. Offrire tale diverso punto di vista rappresenta uno dei compiti più importanti della psicoterapia. Molto potente in tal senso risulta la psicoterapia di gruppo poiché in un contesto di questo tipo i soggetti entrano in contatto ripetutamente con un altro ventaglio di chiavi di lettura diverse in grado di dissolvere la prigione di una visione ripetitiva, distorta e dolorosa del mondo.
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Grazie dell’attenzione. Vi auguro una buona giornata!
Dottor Simone Ordine, psicologo e psicoterapeuta Roma Prati
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