Per capire cosa sia un trauma, occorre partire dalla parola stessa, dall’etimologia che ci permette di individuarne il significato e di ragionarci su.
Trauma deriva dal greco e significa “ferita, rottura, lacerazione”. Di solito, la parola trauma si usa nell’ambito medico quando si vuole indicare un danno prodotto da agente esterno (un incidente, una violenza) su una parte del corpo o un organo tale da comprometterne il normale funzionamento.
Se ci spostiamo dal piano fisico a quello psicologico, il concetto espresso non cambia. Il trauma psicologico è una ferita dell’anima, una lesione profonda causata da un evento percepito come estremamente stressante.
Qualcosa di dirompente che può arrivare a minare il nostro equilibrio interiore.
Quello che subiamo, nel caso di un trauma, è un vero e proprio shock che non riusciamo a integrare nel nostro sistema psichico pregresso. È come un terremoto che fa tremare la nostra struttura mentale, aprendovi delle crepe, danneggiandone la coesione interna.
Le situazioni in cui possiamo trovarci a vivere un trauma sono tante e diverse: può trattarsi di un incidente d’auto, di una violenza fisica o psicologica, di un abuso, di un grave lutto, ma anche di esperienze di rifiuto, abbandono o trascuratezza vissute nell’infanzia. Anche la perdita di un lavoro può essere un trauma, così come il venir lasciato dal proprio partner. Le conseguenze sul piano psicologico non dipendono dall’ evento in sé.
L’impatto del trauma su ciascun individuo è soggettivo ed è legato al modo in cui il singolo vive l’esperienza traumatica.
Per comprendere meglio questo aspetto, possiamo far riferimento a un capolavoro della cinematografia come “Il cacciatore”, film del 1978 diretto da Michael Cimino, con Robert De Niro nei panni di uno dei protagonisti. Rivediamo alcune delle scene principali di questa pellicola, rileggendola alla luce del tema del trauma psicologico.
Due modi diversi di vivere una stessa esperienza traumatica
Siamo al tempo della guerra in Vietnam. Tre giovani amici, originari di una cittadina del Pennsylvania, partono per il fronte come soldati. Durante un’azione militare, i ragazzi finiscono nella trappola dei Viet Cong che li fanno prigionieri. Invece di accanirsi su di loro con torture fisiche e percosse, decidono di sottoporli a un gioco sadico, una vera e propria tortura psicologica.
Prendono una rivoltella, la caricano con un solo proiettile, fanno girare il tamburo e poi consegnano l’arma nelle mani di un prigioniero che deve puntarsela alla testa e premere il grilletto: è la roulette russa. C’è una possibilità su sei di morire. Tutto è in mano al caso. E la tensione, naturalmente, sale alle stelle, mentre gli aguzzini si divertono a scommettere sull’esito di questo crudele divertimento.
Steven, quello dei tre più insicuro, timido, fragile, cede subito. Colto dal panico, incapace di reggere al peso emotivo, finisce col fare fuoco contro il soffitto, sottraendosi al meccanismo perverso della roulette russa. I Viet Cong lo puniscono immediatamente, rinchiudendolo in una gabbia immersa nelle acque del fiume e piena di topi.
A questo punto, Michael – interpretato da Robert De Niro – prende in mano la situazione, dimostrando la sua capacità di mantenere lucidità, freddezza e nervi saldi. Convince l’ultimo prigioniero, Nick, a tentare una mossa disperata per riuscire a mettersi tutti in salvo: inserire tre pallottole nel caricatore in modo da avere abbastanza colpi in canna da uccidere i loro carcerieri. Naturalmente, questo significa alzare in modo esponenziale le possibilità di morire. Quando viene il suo turno, Michael guarda in faccia la possibilità della morte e procede, senza esitazioni. Nick, invece, indugia più volte, prima di sparare.
Alla fine, l’azione riesce e i tre riescono a scappare.
Le conseguenze di quello che abbiamo appena visto si manifestano nel tempo. Michael e Nick hanno vissuto la stessa esperienza traumatica, erano insieme intorno a quel tavolo, con i Viet Cong che urlavano loro addosso e li minacciavano, con la pistola carica da puntarsi alla tempia. Ma il modo in cui hanno vissuto quest’esperienza è profondamente diverso.
Entrambi si portano addosso ferite fisiche ed emotive.
Ma è Nick a rimanere segnato nell’intimo perché è lui ad aver visto la morte più da vicino, perché ha accettato di seguire passivamente il piano suicida dell’amico. Quest’evento costituisce per lui un punto di non ritorno, qualcosa che si incide nella sua psiche e lo disancora da sé stesso.
Ce ne accorgiamo subito dopo, in un’altra scena.
Il trauma che ferma il tempo: la coazione a ripetere
Dopo la fuga e il ricovero in ospedale per curare le ferite fisiche riportate, vediamo Nick aggirarsi per Saigon (l’attuale Ho Chi Min), senza una meta precisa. A un certo punto, il ragazzo si ferma di fronte a un locale da dove provengono degli spari ripetuti. È un luogo in cui i Vietnamiti si riuniscono per giocare e scommettere alla roulette russa. Nick, intuendo cosa sta accadendo lì dentro, vorrebbe allontanarsi. Poi, però, un faccendiere lo convince a varcare la soglia del locale e persino a sedersi a uno dei tavoli per partecipare al gioco.
L’esperienza traumatica vissuta da Nick mentre era prigioniero si ripete ed è lui stesso a mettersi in quella situazione.
Il trauma psicologico chiude la vita, ferma il tempo e intrappola l’individuo in quel preciso momento, all’interno della situazione traumatica che ha vissuto e che continua a ripresentarsi. Chi ha subito un trauma, molto spesso lo rivive nei propri sogni, nei ricordi che riaffiorano improvvisamente, ma anche nella vita quotidiana che non è più quella di prima.
Il gesto di Nick che entra nel locale, siede e si punta di nuovo la pistola alla testa non è altro che la traduzione in pellicola di una delle principali conseguenze del trauma psicologico: la coazione a ripetere. Il soggetto, in modo del tutto inconscio e inconsapevole, continua a mettersi in quella stessa situazione, riproduce all’infinito la vecchia esperienza.
Nick, privo del supporto psicologico necessario a elaborare il trauma, a rimettere insieme i pezzi della sua esistenza, rimane incastrato nel passato, bloccato da quell’evento che condiziona per sempre la sua esistenza. Alla fine del film, Michael lo incontra di nuovo, in Vietnam. Nick è rimasto laggiù e ha continuato, giorno dopo giorno, a praticare quel gioco maledetto, divenendo un esperto e consumato giocatore, nel tentativo mai riuscito di esorcizzare il trauma subito.
Le conseguenze di un trauma
Il caso di Nick, toccato nel profondo da un’esperienza violenta come quella della guerra in Vietnam, rappresenta un esempio estremo di quelle che possono essere le conseguenze del trauma psicologico. Tra queste vi è, appunto, la coazione a ripetere, la tendenza inconscia del soggetto traumatizzato a ripetere in modo ossessivo il trauma, nell’illusione di poterlo controllare nel momento in cui è lui stesso a riproporlo ma in modo attivo.
È un tentativo di dominare retroattivamente l’esperienza dolorosa.
Nella nostra quotidianità, la coazione a ripetere è molto più presente di quanto possiamo immaginare. Non ce ne accorgiamo perché assume forme molto meno evidenti e manifeste di quelle che possiamo osservare nel film “Il cacciatore”. Molti di noi vivono la coazione a ripetere senza saperlo perché, spesso, l’esperienza traumatica che ha innescato questo meccanismo della nostra mente è stata vissuta in un passato troppo distante per poterlo ricordare oppure è stata rimossa.
Un bambino lasciato piangere per tutta la notte da solo, senza che nessuno si preoccupi di lui, lo consoli, gli presti le dovute attenzioni e cure, si sente abbandonato. Quell’esperienza di abbandono e solitudine ha un impatto forte sull’inconscio e condiziona l’esperienza futura dell’individuo. Se chi doveva prendersi cura di noi da piccoli non è stato in grado di darci amore, si è rivelato svalutante e abbandonico, allora da adulti ci ritroveremo a cercare figure simili con cui instaurare una relazione. Questo è uno dei modi in cui si manifesta la coazione a ripetere.
Continuiamo a replicare uno schema acquisito.
Superare un trauma psicologico
La conclusione del film “Il cacciatore” potrebbe indurci a pensare che sia impossibile uscire dal trauma, che quel dolore ce lo porteremo addosso per sempre e finirà per ucciderci. Ma questo non è vero.
Il trauma psicologico può essere elaborato e superato.
Grazie alla psicoterapia individuale, chi ha subito un trauma può trovare la via d’uscita da quella prigione in cui si sente rinchiuso. La terapia può far ripartire le lancette dell’orologio, bloccate al momento in cui tutto è avvenuto. Il primo passo nel percorso è l’identificazione del problema, che può avvenire ripercorrendo la storia delle proprie relazioni, seguendo il filo rosso che le tiene insieme. A questo punto, può avvenire la presa di coscienza cognitiva, il raggiungimento della consapevolezza di quanto avvenuto, della radice della sofferenza vissuta. Tutto questo, però, non è sufficiente se non si raggiungere la presa di coscienza emotiva, che può avvenire in modi diversi.
La presa di coscienza emotiva può avvenire attraverso il transfert, quel particolare meccanismo attraverso il quale il paziente trasferisce sul terapeuta sentimenti ed emozioni provati nel suo passato, nei confronti di persone che hanno avuto un peso nella sua vita infantile.
Il paziente che ha subito un trauma, attraverso il transfert, ripropone in modo inconsapevole quel particolare vissuto, proiettandolo sull’immagine del terapeuta. Di fatto, legge e interpreta il presente alla luce del passato. Sta al professionista aiutarlo a comprendere che la relazione vissuta nel qui e ora non ha i caratteri della relazione originaria, di ciò che sta alla radice del suo malessere.
Altro modo per raggiungere la consapevolezza emotiva è attraverso lo psicodramma, tecnica utilizzata nella terapia di gruppo, che si fonda sulla drammatizzazione, sulla messa in scena di ricordi, emozioni, sogni. Lo psicodramma consente di rivivere quel momento, di elaborarlo e di dare un finale diverso alla storia.