Ritrovare la propria interiorità

La maggior parte dei disagi che si affrontano nella stanza dello psicoterapeuta sorge dall’incapacità del soggetto di riconoscere e di rivolgersi agli aspetti interiori della vita. Questa dolorosa condizione, per la quale l’individuo risulta come diviso in se stesso, incapace, per così dire, di dialogare con le componenti più profonde del proprio sé, può essere pensata come il riflesso di una cultura ancora troppo chiusa all’interno di una logica consumistico-materialistica. Una logica che assume l’oggetto come soluzione d’ogni mancanza umana.

L’impossibilità di risolvere il disagio con azioni concrete

Immerso a bagno in un discorso di questo tipo l’individuo è facile preda dell’illusione secondo la quale sarebbe possibile risolvere delle mancanze interiori attraverso operazioni concrete. A partire da questa trappola mentale si innestano e si dispiegano la maggior parte dei disturbi mentali di cui soffre la nostra società: disturbi del comportamento alimentare, alcolismo, tossicomania, nevrosi ossessive, difficoltà a tollerare la solitudine, dipendenza affettiva, deficit genitoriali, autostima inadeguata. Naturalmente ogni caso si configura in modo unico, non di meno la dinamica suddetta risulta un prerequisito fondamentale nell’instaurarsi di tutti questi disturbi. Per tale motivo imparare a riconoscerla può apportare un considerevole giovamento in diversi contesti di disagio mentale.

Riempire i vuoti: bulimia, anoressia, alcolismo, tossicomania

La dinamica profonda che muove la bulimia risiede nel tentativo fallimentare di riempire un vuoto interiore con un elemento concreto, il cibo. Riempendosi di cibo il soggetto bulimico prova un momentaneo e apparente sollievo che lo induce a reiterare compulsivamente quanto disperatamente il comportamento stesso. Così facendo egli nutre l’interno ma non l’interiorità, risponde al vuoto ma non alla mancanza. Naturalmente per uscire dal suo stato il bulimico avrebbe bisogno di nutrire la propria interiorità con un cibo emotivo e relazionale.

Dietro all’alcolismo e alla tossicomania si nasconde lo stesso processo: ciò che cambia è solo il contenuto che non è più il cibo ma l’alcol o una qualsiasi altra sostanza psicotropa. Questo tipo di meccanismo genera un circolo vizioso determinato dal fatto che il soggetto, avvertendo il fallimento del suo tentativo di evitare la sofferenza, sente acuirsi la sensazione di sconforto e vuoto, alla quale non trova altra soluzione se non la reiterazione del comportamento stesso.

Nell’anoressia si presenta la medesima dinamica ma in forma invertita. L’anoressica con la sua condotta sembra gridare: “Fintantoché qualcuno non mi darà da mangiare del pane interiore io non mangerò il pane terreno!”. La sua è una protesta disperata e inconscia che si esprime attraverso il sacrificio e la simbologia del corpo. Tale protesta viene rivolta il più delle volte a genitori che tendono a prestare ai figli una cura esclusivamente concreta: essi forniscono loro consigli, direttive, denaro, beni, cibo, ma non uno spazio mentale in cui poter esprimere le esigenze interiori.

Una volta presi in cura una ragazza caduta nella morsa di una severa nevrosi ossessiva che si manifestava attraverso rituali relativi alla pulizia del corpo. Tale disturbo la costringeva a lavarsi le mani fino a cinquanta volte al giorno. Ricorse all’aiuto di uno psicoterapeuta solo quando tale comportamento compulsivo la portò a sviluppare una grave dermatite.

Ella ovviamente non era sporca, ma si sentiva così.

Il suo rituale le offriva un breve momento di tregua riguardo tale sensazione spiacevole, ma subito dopo si ripresentava in lei la necessità di reiterarlo. La paziente conseguì un notevole miglioramento della sua qualità di vita quando riuscimmo a spostare la sua attenzione dal piano concreto a quello psicologico. Così facendo riuscimmo a comprendere, ad esempio, che la sensazione di sudiciume che la perseguitava rappresentava il derivato di sensi di colpa inconsci, dovuti ad una educazione eccessivamente rigida.

Solitudine e relazioni patologiche: il vuoto che genera difficoltà relazionali e dipendenza affettiva

La difficoltà a trarre piacere dalla solitudine può avere diverse cause. Una della più importanti risiede nell’esilio della persona dal proprio mondo interiore. Infatti colui che viva una vita posta esclusivamente su un piano concreto per non essere preda della sensazione della solitudine ha assoluto bisogno, come fosse un bambino, di esperire la continua presenza fisica dell’altro significativo.

Questo genera la tendenza a instaurare relazioni invischiate e patologiche. La sensazione di solitudine della persona che viva la relazione secondo questo schema rimane fatalmente incolmabile, come un pozzo senza fondo. Ella reagisce il più delle volte provando risentimento e rabbia nei confronti delle persone attraverso le quali cerca di appagare la fame di presenza, ma questo non fa che peggiorare la sua condizione relazionale. La sofferenza di una persona caduta in questo meccanismo deriva innanzitutto dalla difficoltà a interiorizzare le persone care, ovvero dalla sua impossibilità di coltivare un mondo interiore in cui poter rievocare la presenza psichica dell’altro emotivamente significativo.

La maggior parte delle persone che soffrono di dipendenza affettiva hanno sviluppato tale disturbo a partire da profonde ferite emotive generatisi nell’infanzia a causa di mancanze e maltrattamenti genitoriali più o meno gravi. Le ferite di queste persone sono interiori, ma esse il più delle volte cercano di risolverle attraverso comportamenti concreti, riferiti alla disperata richiesta di presenza fisica da parte dell’altro. Fintantoché esse non riusciranno a incanalare le loro energie nella cura del loro mondo interiore, i loro tentativi non produrranno nessun sollievo duraturo. Anche in campo relazionale si rende evidente come la lontananza dal proprio mondo interiore risulti un fattore fondamentale di sofferenza.

Il ruolo del genitori: quando ci si preoccupa dei figli anziché occuparsi di loro

Il mestiere del genitore è il più importante e allo stesso tempo il più difficile.

Per svolgerlo non esiste un libretto di istruzioni, poiché ogni bambino è diverso dall’altro. Le scienze psicologiche però sono in grado di dimostrare come alcuni atteggiamenti genitoriali risultino indiscutibilmente dannosi. Tra questi ve né uno tanto pericoloso quanto poco riconoscibile: ha a che fare con la modalità genitoriale che tende a pre-occuparsi invece di occuparsi dei figli. Il genitore che porta avanti tale schema quasi mai lo fa in modo consapevole.

Pre-occuparsi significa dare al figlio ciò che si ha: provvedere ai beni materiali, offrire consigli, ecc. Occuparsi significa mettere a disposizione non tanto quello che si ha quanto piuttosto ciò che si è. Significa saper stare senza la mediazione di oggetti. Significa nutrire uno spazio mentale e relazionale in cui poter sostenere ed elaborare le difficoltà e le esigenze psichiche dei figli. Solitamente il genitore che tende ad eccedere nella pre-occupazione lo fa per compensare la sua difficoltà a occuparsi. Tale fenomeno rappresenta uno dei molteplici modi in cui si declina il meccanismo deficitario per cui si tenta di compensare mancanze interiori con un comportamento concreto. Per esempio un genitore che avverta in modo più o meno consapevole di non riuscire a gestire le emozioni del figlio può reagire alimentandolo in modo ossessivo, oppure offrendogli un sovrappiù più giocattoli, ecc. Il principale effetto di questo tipo di deficit parentale è quello di non permettere al bambino di stabilire un contatto adeguato col proprio mondo interiore. Purtroppo tale assetto, come abbiamo visto, rappresenta un terreno fertile per l’instaurarsi di molteplici disturbi psicologici.

Il baratro della bassa autostima

Infine ritroviamo la stessa trappola mentale in molte persone che soffrono di bassa autostima. Tale condizione oltre a essere correlata con disturbi d’ansia, ingenera sofferenza diffusa in molteplici sfere della vita: relazionale, amorosa, lavorativa, familiare, sportiva ecc. Generalmente la bassa autostima è provocata da ferite narcisistiche generatesi durante l’infanzia, nell’ambito delle relazioni familiari. Tali emorragie di autostima risiedono nelle profondità della psiche, ma la maggior parte della persone prova l’istinto di risolvere attraverso delle operazioni concrete. Il più delle volte la persona affetta da tale difficoltà, se non cade in dinamiche depressive, tende a sviluppare una personalità iperefficientista. Tutte le energie profuse per raggiungere standard ottimali e successo non le aiuta però a stare meglio, perché attraverso tale atteggiamento esse non si rivolgono all’origine del problema. Una persona che affronti un vissuto di questo tipo può trarre invece grande giovamento dall’elaborazione dei traumi infantili e delle relative convinzioni interiori inconsce che costituiscono la fonte originaria della sua sofferenza.

In conclusione, abbiamo visto innanzitutto come la trappola mentale per la quale si cerca di risolvere delle mancanze interiori attraverso delle operazioni concrete è alla base dei disagi più diffusi nella nostra società. In seconda battuta abbiamo sottolineato come tale dinamica tenda ad innescare circoli viziosi ossessivo-compulsivi. Infine abbiamo constatato come sia possibile superare tale tipo di disturbi psicologici spostando la nostra attenzione dalla dimensione concreta a quella interiore.

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