Che cos’è il transfert e come riconoscerlo

Fin dai primi sviluppi della psicoanalisi, il transfert si è rivelato un elemento centrale nel percorso di guarigione del paziente.

Esso rappresenta al tempo stesso il più grande rischio per l’esito della terapia e il suo strumento di trasformazione più potente.

Se il paziente prende coscienza della dinamica sottesa al transfert, egli vive un momento di consapevolezza cruciale, capace di dare avvio a un cambiamento profondo e significativo.

In quel momento, infatti, la relazione terapeutica si trasforma in uno specchio attraverso il quale egli può osservare e rielaborare i propri schemi relazionali inconsci.

Perché questo accada, però, è necessario l’intervento di un terapeuta esperto, capace di riconoscere il transfert e di aiutare il paziente a “vederlo”.

Ma cosa si intende esattamente per transfert?

Come riconoscerlo?

E perché è considerato così potente e pericoloso?

    1. Il Transfert e la proiezione inconsapevole dei vissuti relazionali

Per capire di cosa stiamo parlando, è opportuno operare un distinguo tra psicoterapia e psicoanalisi.

In psicoterapia, il paziente esprime le proprie difficoltà relazionali, descrivendo situazioni che lo mettono a disagio o in cui si sente bloccato. Racconta le emozioni contrastanti che prova, come rabbia, frustrazione o giudizio.

Questi racconti costituiscono la base del lavoro terapeutico.


Attraverso il dialogo, infatti,
il terapeuta aiuta il paziente a riconoscere e affrontare le distorsioni emotive e cognitive che alimentano il suo malessere, aprendo così la strada all’acquisizione di nuove modalità di relazione.

La psicoanalisi subentra in un secondo momento, quando il paziente smette di raccontare a parole le proprie difficoltà e comincia a viverle direttamente all’interno della relazione con il terapeuta.

    1. Il transfert. Come si manifesta

Ma come si manifesta il transfert?

In altre parole, il paziente comincia a sperimentare emozioni e reazioni che non riflettono la realtà del momento presente, che non hanno alcuna connessione con il qui e ora della relazione terapeutica, di cui bisogna ricercare la radice nel passato.

Si tratta, infatti, di emozioni transferali, emozioni dolorose che derivano da traumi o conflitti emotivi irrisolti, spesso legate a figure significative come i genitori o il partner, che vengono trasferite, proiettate sul terapeuta.

Per esempio:

  • il paziente potrebbe sentirsi abbandonato se il terapeuta rimanda una seduta, interpretando questo gesto come un segnale di disinteresse o rifiuto, anche se non riflette affatto l’intenzione del professionista, che magari ha avuto un contrattempo familiare.

    Il sentimento di abbandono provato dal paziente non riguarda il presente, ma affonda le sue radici in esperienze relazionali del passato, come quella con un genitore distante o assente.

  • Il paziente potrebbe reagire con rabbia a un commento neutro del terapeuta, percependolo come un giudizio critico, simile a quelli vissuti in contesti familiari precedenti

Capiamo allora qual è il pericolo del transfert.

Se il terapeuta non riesce a far comprendere al paziente la dinamica del transfert, aiutandolo a identificare la vera origine dei suoi vissuti dolorosi, c’è il rischio che il paziente attribuisca al professionista la “colpa” del proprio malessere.

Questo può minare profondamente la fiducia reciproca, elemento fondamentale per il successo della terapia, e portare alla precoce interruzione del percorso (drop out).

Al contrario, se nel corso delle sedute è stata costruita una solida alleanza terapeutica e il terapeuta riesce a riconoscere tempestivamente una dinamica di transfert in atto, intervenendo in modo adeguato, quella che sembra una crisi può trasformarsi in una preziosa opportunità.

In quel momento critico, infatti, il paziente può finalmente guardare da vicino gli schemi relazionali distorti e dolorosi che influenzano la sua percezione del mondo.

Prendere coscienza di questa distorsione percettiva relazionale (o appercezione), gli consente di far cadere quel filtro inconsapevole, liberandosi così dal transfert e avviando un profondo processo di trasformazione e guarigione.

    1. Il transfert non agisce soltanto in terapia. Alcuni esempi di emozioni transferali nella vita quotidiana

Il transfert può essere esplorato e compreso all’interno del contesto psicoanalitico.

In questo spazio, infatti, con il supporto di un terapeuta esperto, si ha la possibilità di portare l’inconscio alla luce, prendendo consapevolezza delle dinamiche profonde che governano le nostre azioni.

Questo processo di svelamento è agevolato dall’intensità con cui il transfert si manifesta nei confronti del terapeuta, spesso vissuto come una figura genitoriale.

Ma dobbiamo comprendere che il transfert non è qualcosa che nasce nella stanza di terapia.

Come evidenziato da Massimo Grasso e Angelo Pennella, professori di psicologia dinamica alla Sapienza, il paziente trasferisce sempre parte delle esperienze del passato sulle relazioni presenti, applicando una “fantasia relazionale prevalente”.

Dunque, il transfert non si limita al contesto terapeutico.

Esso è sempre attivo nella nostra mente e agisce – senza che ce ne accorgiamo – anche fuori dalla stanza di terapia, nella vita di tutti i giorni.

La persona lo vive, lo agisce e spesso lo soffre principalmente nelle relazioni quotidiane con le persone emotivamente significative.

Di seguito analizzeremo alcune situazioni in cui può manifestarsi il transfert, come il contesto lavorativo, la vita di coppia e la relazione con i propri figli.

Il transfert sul posto di lavoro. Quando il capo “ricorda” il padre

Il transfert sul lavoro si manifesta spesso a causa delle somiglianze strutturali e relazionali tra l’esperienza familiare dell’infanzia e il contesto lavorativo dell’età adulta.

Questi due ambiti, infatti, condividono numerosi punti di contatto che favoriscono l’instaurarsi di dinamiche inconsce in cui passato e presente si sovrappongono e fondono.

Questo transfert naturalmente sarà più ingombrante per coloro che hanno vissuto una relazione negativa e dolorosa con i genitori, caratterizzata da umiliazione o abbandono.

Perché famiglia e lavoro sono esperienze tanto simili?

  • Entrambi si basano su una relazione asimmetrica.

    In famiglia, il genitore rappresenta un’autorità, una figura di riferimento che esercita potere e influenza sul bambino, privo di potere decisionale.
    Sul lavoro, il capo assume un ruolo simile, gestendo il dipendente e detenendo il controllo sul suo percorso professionale;

  • Struttura relazionale simile

    In famiglia, oltre ai genitori ci sono i fratelli con cui si condividono risorse ed esperienze, come pari.
    In ufficio, i colleghi svolgono un ruolo analogo, creando dinamiche di competizione, cooperazione o confronto diretto;

  • Dipendenza materiale

    Durante l’infanzia, i genitori si occupano del sostentamento del figlio. Gli forniscono una casa, del cibo, vestiti, istruzione, occupandosi di tutti i suoi bisogni materiali.
    Nell’età adulta, questa funzione è trasferita al datore di lavoro, che attraverso lo stipendio garantisce le risorse necessarie per vivere.

  • Continuità spaziale e temporale

    Da bambino si trascorre la maggior parte del tempo in casa, un luogo con regole e routine ben definite.
    Da adulto, l’ufficio o il luogo di lavoro diventa uno spazio simile, con orari fissi,
    una struttura gerarchica ben definita e regole comportamentali a cui attenersi, spesso definite nel contratto;

  • Premi e punizioni

    In famiglia, i genitori incentivano i comportamenti desiderati, distribuendo premi (la caramella, il gioco etc.) e impartendo punizioni quando si trasgrediscono le regole.
    Sul lavoro, il sistema premia con promozioni o riconoscimenti e punisce con sanzioni o richiami, replicando schemi analoghi.

Queste somiglianze fanno sì che alcune persone proiettino inconsciamente le proprie esperienze familiari sul luogo di lavoro.

Chi ha avuto genitori severi, giudicanti, inclini a punire e umiliare, tende a replicare lo schema relazionale negativo nei confronti di figure di autorità, come il capo o il dirigente.

Ad esempio, una persona cresciuta con un padre severo e punitivo potrebbe percepire il proprio superiore come eccessivamente critico, aanche quando il suo comportamento è del tutto neutrale.

Il transfert può indurre la persona a interpretare negativamente ogni situazione lavorativa, facendola sentire oppressa, ansiosa e costantemente sotto giudizio, anche in assenza di reali motivi.

Emozioni come rabbia, paura o insoddisfazione possono emergere non per circostanze attuali, ma come un riflesso di conflitti irrisolti del passato, proiettati inconsciamente nel presente.

Queste emozioni proiettive possono portare la persona a interpretare situazioni neutre come minacciose.

Un dipendente potrebbe sentirsi vittima di mobbing o ingiustizie, quando in realtà queste non stanno accadendo. È il passato che si sovrappone al presente, distorcendo la percezione della realtà.

    1. Il transfert nella vita di coppia

La relazione di coppia è un altro dei contesti relazionali in cui il transfert agisce prepotentemente, talvolta ponendo le basi per una crisi di coppia.

Spesso accade di assumersi il peso delle colpe dei propri genitori in modo del tutto inconsapevole, trasformando il matrimonio o la relazione di coppia in un inferno in cui cercare di espiare responsabilità che in realtà non ci appartengono.

Immaginiamo un ragazzo cresciuto in una famiglia in cui:

  • il padre incarna un maschilismo vecchio stampo, non riconosce pari dignità alla donna, tradisce la moglie ed è sempre assente

  • la madre, invece, è una donna remissiva e fragile, incapace di reagire se non con disperazione e depressione, lamentandosi costantemente del comportamento del marito davanti al figlio.

Crescendo in un ambiente così disfunzionale, questo ragazzo assorbe i vissuti materni, introiettando un’immagine negativa del maschile.

Egli associa la colpa al semplice fatto di essere uomo, sviluppando un senso di vergogna e responsabilità per i comportamenti del padre.

Quando questo ragazzo, una volta diventato adulto, intreccia una relazione di coppia non parte da una condizione neutra.

Egli si porta dentro il peso delle dinamiche familiari e sente il bisogno di espiare le colpe del padre, di riparare il passato con il proprio comportamento.

Questo si traduce in una serie di atteggiamenti che nulla hanno a che vedere con la relazione che sta vivendo.

Poiché il padre è stato un egoista, lui “decide” di essere l’opposto, un martire che si immola, sacrificandosi per l’altro, mettendo i bisogni del partner sempre davanti ai propri, rinunciando sistematicamente a sé stesso.

Ogni tentativo di prendersi del tempo per sé, come uscire con amici o fare sport, viene vissuto come una trasgressione che lo fa sentire in colpa.

Vive nel timore di entrare in conflitto con la propria compagna e per mantenere una pace apparente, evita ogni confronto.

Questo atteggiamento, benché mosso dall’intento di far felice la partner, non raggiunge il risultato sperato.

Mentre lui soffoca sé stesso, vivendo un’esistenza fatta di rinunce e senso di colpa, senza mai sentirsi veramente appagato, lei ha l’impressione di essere invisibile poiché non viene percepita per ciò che è realmente.

La compagna, infatti, si accorge che il suo uomo la osserva attraverso il filtro del suo passato doloroso.

La sua sottomissione estrema, anziché essere apprezzata, le risulta fastidiosa poiché le trasmette l’idea di una persona priva di personalità e incapace di esprimere i propri desideri.

    1. Il transfert sui figli

In molti casi, purtroppo, i bambini rappresentano il primo bersaglio delle proiezioni transferali dei genitori, in particolare di coloro che, prima di avere un bambino, non sono riusciti a elaborare e risolvere i propri vissuti conflittuali come figli.

Immaginiamo una donna che, da bambina, ha vissuto un rapporto complesso con una madre ipercritica, che proiettava su di lei ambizioni irrealistiche, facendola costantemente sentire inadeguata.

È molto probabile che questa donna, divenuta madre a sua volta, ricada in una dinamica simile nel rapporto con sua figlia.

Questa madre potrebbe iniziare a percepire che la figlia “non è abbastanza”, vivendo con ansia ogni suo insuccesso e preoccupandosi costantemente di colmare quelle che ritiene essere le sue carenze.

Potrebbe, per esempio, iscriverla a corsi aggiuntivi, cercare un insegnante privato per farle dare ripetizioni, darle mille sostegni nel timore che lei rimanga indietro.

Questo atteggiamento ipercritico e pressante può generare nella figlia una forte ansia da prestazione, che aprirà la strada a una profezia che si autoavvera.

Se la madre non trasmette fiducia nella capacità della figlia, è probabile che quest’ultima finisca per interiorizzare questa percezione. La bambina può cominciare a pensare di non essere abbastanza brava o di non valere, identificandosi con la proiezione materna.

Questo processo, noto come identificazione proiettiva, può portare la bambina a sviluppare insicurezze profonde che, unite all’ansia e alla pressione, comprometteranno le sue prestazioni.

Di conseguenza, è possibile che la bambina non raggiunga i risultati sperati.

Ecco che la profezia della madre si avvera: non perché la bambina non sia realmente capace, ma perché il peso delle aspettative materne ha minato la sua autostima, impedendole di esprimere appieno le sue potenzialità.

Di fronte al “fallimento” della figlia, la madre vedrà confermata la sua convinzione iniziale.

Questo fenomeno, chiamato controidentificazione proiettiva, rafforza ulteriormente la proiezione materna, rendendola una “realtà” che si autoalimenta.

Immagine di copertina: Immagine di shurkin_son su Freepik

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