La psicoterapia può avvalersi di molte fonti da cui attingere stimoli e spunti di riflessione, utili a spiegare i meccanismi sottesi all’agire umano.
È possibile, per esempio, volgere lo sguardo ai grandi pensatori della filosofia, come Nietzsche, nella cui opera ed esperienza di vita cogliamo un esempio di come il Corpo di Dolore porti alla pazzia; o Heidegger che con la meravigliosa favola della Cura riesce a spiegarci quale sia il significato profondo dell’esistenza umana.
Anche i grandi capolavori della letteratura offrono innumerevoli esempi a cui è possibile fare riferimento per comprendere quel che accade dentro di noi a livello psicologico, tanto che spesso è possibile utilizzarla come strumento terapeutico vero e proprio.
Possiamo leggere 1984 di George Orwell per comprendere il meccanismo dell’inversione di colpa, scandagliare le pagine de “L’avversario” di Emmanuel Carrére per vedere gli effetti terribili che può provocare la dinamica del doppio legame, perderci nel racconto di “Delitto e Castigo”, lasciando che Dostoevskij ci guidi nei meandri dell’animo umano, dandoci dei profondi insegnamenti psicologici e spirituali.
Tutto questo può avvenire anche con il Vangelo, come cerco di dimostrare attraverso i video del mio canale youtube, legati a un progetto di Psicoterapia Spirituale.
In questo articolo vorrei evidenziare i punti di contatto tra Psicoterapia e insegnamenti di Gesù, inteso come grande maestro spirituale, in grado di illuminare il nostro cammino verso un’esistenza più autentica.
L’acqua viva e la cura dell’interiorità
La mia riflessione parte da un passo che ho già trattato in un articolo “Psicoterapia e Vangelo: l’acqua viva dell’Essere”: il capitolo 4 del Vangelo secondo Giovanni, che racconta l’episodio della Samaritana al pozzo.
Riassumo brevemente per poi spiegare il profondo significato di questo importante passaggio evangelico.
Gesù, in viaggio verso la Galilea, si trova a passare per la Samaria, regione montuosa di Israele, nel nord dell’attuale Cisgiordania. Giunto nei pressi di un pozzo, vedendo una donna che si avvicina per attingere, le chiede dell’acqua.
Lei è titubante, sconcertata da quella richiesta poiché Giudei e Samaritani non sono in buoni rapporti.
“Come mai tu, che sei giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?” chiede lei.
“Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: “Dammi da bere!”, tu avresti chiesto a lui ed egli ti avrebbe dato acqua viva” risponde Gesù.
Lei, a questo punto, è ancora più confusa. L’uomo che ha di fronte, infatti, non ha con sé un secchio, non potrebbe in alcun modo attingere acqua da quel pozzo così profondo.
Ma Gesù le oppone una risposta ancora più sconcertante: “Chiunque beve di quest’acqua avrà di nuovo sete; ma chi berrà dell’acqua che io gli darò, non avrà più sete in eterno. Anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna”.
Cos’è quest’acqua viva di cui parla Gesù?
Quella che vado a illustrare è un’interpretazione di tipo psicoterapeutico.
Più volte ho evidenziato come tutte le nevrosi ossessive, dalle abbuffate compulsive al perfezionismo spinto fino all’eccesso, hanno in comune un aspetto fondamentale: chi ne soffre cerca in ogni modo di risolvere un problema psicologico attraverso un’operazione concreta o un elemento materiale.
Così si comporta colui che, sentendosi sporco dentro, è spinto a lavarsi le mani più volte al giorno, sfregando con forza, con l’unico risultato evidente di causarsi serie irritazioni e dermatiti.
Così si comporta colei che, avvertendo un vuoto interiore incolmabile, comincia a mangiare in modo sregolato nel tentativo di “riempirsi”, arrivando a sviluppare una vera ossessione per il cibo che esita in un disturbo alimentare.
Così si comporta chi non è riuscito a costruire una solida autostima, spinto dalla propria mancanza a cercare approvazione e riconoscimento all’esterno, come volesse sempre dimostrare qualcosa agli altri, ottenendo successo, superando traguardi, primeggiando in ogni ambito della vita, dallo sport al lavoro.
Chi beve di quest’acqua, però, avrà sempre sete.
Chi cerca una cura alla propria sofferenza interiore nel mondo esterno non potrà che rimanere deluso ogni volta. Potrà, forse, trovare un sollievo momentaneo, una breve consolazione.
Ma si tratta di un beneficio effimero e passeggero, a cui segue un senso di vuoto ancora più profondo, a cui si cerca ancora di porre rimedio reiterando il comportamento compulsivo, in una spirale senza fine.
Come ci fa comprendere Gesù, in questo modo, non ti sentirai mai pulito, mai sazio, mai arrivato.
Occorre scendere in profondità per guarire certe ferite.
Soltanto l’acqua viva dello spirito cioè il prendersi cura della propria interiorità può placare la sete, può farci sentire pienamente soddisfatti.
La tentazione del miracolo e il vero aiuto terapeutico
Altro tema su cui vorrei soffermarmi emerge dalla lettura del passo delle tentazioni di Gesù, presente all’interno dei Vangeli sinottici.
Dopo essere stato battezzato, infatti, Gesù trascorre 40 giorni nel deserto, digiunando e pregando. È lì che il Diavolo lo avvicina, cercando di farlo cedere alla tentazioni.
Tre sono le tentazioni che il Demonio gli pone davanti, che potremmo sintetizzare in:
- tentazione del miracolo (trasformare le pietre in pane)
- tentazione del mistero (far intervenire Dio, impedendogli di cadere nel vuoto)
- tentazione dell’autorità (prostrarsi e adorare il diavolo stesso per ottenere tutti i regni del mondo)
Altrettante sono le tentazioni contro cui deve lottare il terapeuta ogni volta che accoglie un nuovo paziente e intraprende con lui il viaggio della psicoterapia.
Quella di cui mi interessa parlare in questo frangente è la prima, la tentazione del miracolo.
Cosa accade nel Vangelo?
Succede che dopo tanto digiunare, Gesù sente l’impulso della fame. In quel momento, il Diavolo seduttore cerca di fare leva su un possibile punto debole, sulla fragilità del bisogno di mangiare e invita Gesù a compiere il miracolo: “Se sei il figlio di Dio, d’ che questi sassi diventino pane”.
Ma Gesù gli risponde con parole divenute celebri, tratte dal Deuteronomio: “Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”.
Dal punto di vista della psicoterapia, possiamo fornire una doppia interpretazione di questo passaggio.
Molto spesso, infatti, di fronte alla sofferenza altrui, il terapeuta può essere colto dall’impulso di fornire una risposta immediata al bisogno espresso dal paziente. Se cede a questa tentazione, però, egli si pone allo stesso livello del santone o del guru, qualcuno che si crede dotato di superiori poteri magici, in grado di compiere un miracolo e di trasformare la realtà.
Il paziente potrebbe arrivare in seduta dicendo: “Mi aiuti a far innamorare Francesca di me” oppure “Dobbiamo far stare meglio mio padre”.
Queste richieste rientrano in quelle che definiamo domande terapeutiche incompetenti, basate sul pensiero magico.
Chi le pone ha delle aspettative irrealistiche rispetto alla psicoterapia. Non ha ancora acquisito la consapevolezza necessaria, che può essere sviluppata soltanto in modo lento e graduale, affrontando il percorso sotto la guida di un professionista che sappia accompagnare e affiancare, indicando la strada maestra e non le scorciatoie.
Un professionista che non dovrebbe mai cade nel trabocchetto di offrire soluzioni facili, sostituendosi all’altro come egli, talvolta, chiede a gran voce perché non ha alcuna intenzione di lavorare su sé stesso, di scavare nel proprio profondo, di affrontare i propri demoni.
Inoltre, egli non può e non deve mai aiutare in prima persona il paziente a risolvere un problema pratico.
Se il paziente si sente solo e ha bisogno di stringere nuove relazioni, non può essere il suo amico e confidente speciale.
Se il paziente ha perso il lavoro, non può raccomandarlo caldamente a un suo conoscente perché gli offra un impiego.
Per usare una metafora comune, non può dargli il pesce anziché insegnargli a procurarselo da solo, pescando.
Questo significherebbe, tra l’altro, sostituirsi all’altro e instaurare una relazione di dipendenza, cioè fare l’esatto contrario di quello che dovrebbe fare un buon terapeuta: aiutare il paziente ad assumersi la responsabilità di sé stesso, ad imparare come prendersi cura di sé e quindi renderlo libero e indipendente.
Parabole e metafore: le immagini potenti che legano Vangelo e psicoterapia
Un ultimo parallelismo tra Vangelo e psicoterapia si trova nell’uso che Gesù fa delle parabole, racconti in cui cioè che conta davvero non è il contenuto ma il processo.
È questo a renderle universali ed eterne, a farle durare oltre il tempo e lo spazio.
E ad avvicinarle molto al modo in cui vengono usate le immagini, le metafore e i racconti in psicoterapia, strumenti che consentono una comprensione profonda e immediata delle dinamiche psicologiche della persona.
Per spiegarmi, userò un piccolo esempio.
Immaginiamo un paziente che nel corso della seduta racconta un episodio di vita quotidiana accadutogli qualche giorno prima. Si è recato al mercato per comprare della frutta. Arrivato al banchetto, ha chiesto al fruttivendolo alcune pesche. Soltanto quando è tornato a casa, si è reso conto che nella busta c’erano meno pesche di quelle che aveva chiesto.
Racconta che la sua reazione è stata molto forte, esagerata rispetto alla situazione banale che aveva appena vissuto.
Situazione che, però, ha fatto riecheggiare qualcosa in lui, qualcosa che probabilmente ha a che vedere con un episodio relazionale.
Quelle pesche in meno si legano all’idea di ricevere meno di quel che ci si aspetta, di cui si ha bisogno, non soltanto in termini materiali ma anche emotivi.
Sta al terapeuta rendersi conto di questo, domandandosi se la reazione avuta dal paziente non deriva da altro, da un vissuto di mancanza e privazione collocato nel suo passato. Sarà suo compito, allora, aiutare il paziente, ancora una volta attraverso metafore ed esempi, a comprendere la dinamica, il processo che sta al di là e sotto il fatto concreto.
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