Nomotetico e Idiografico
Da un punto di vista epistemologico le teorie del deficit parentale rappresentano un caso pressoché isolato nel panorama degli studi psicologici, in quanto esse seguono essenzialmente un approccio di tipo nomotetico, ovvero basato su costrutti relativi a fenomeni di ordine generale.
La maggior parte dei filoni di studi in psicologia, infatti, rimangono centrati su un metodo di stampo idiografico, avente cioè come oggetto di studio eventi particolari e non ripetibili (Battacchi 1990).
In altri termini, mentre la maggior parte delle scuole di psicologia costruiscono la propria struttura teorica soprattutto a partire dalla osservazione di singoli casi clinici, la psicologia del deficit parentale, seguendo in tal senso un percorso opposto, affronta l’analisi dei casi individuali sulla scorta di teorie valide per l’intera specie del genere umano, derivanti dal campo delle scienze naturali, come la biologia e l’etologia. In relazione all’argomento, ad esempio, risulta opportuno ricordare come la costruzione dell’impianto teorico psicoanalitico, come afferma il suo stesso padre fondatore, sia elaborata principalmente a partire da situazioni terapeutiche ben precise, divenute poi in tal guisa addirittura celeberrime.
Si pensi a tal proposito al caso di Anna O., e alla sua importanza nelle prime formulazioni teoriche riguardanti l’isteria; al caso del piccolo Hans, in relazione al concetto di libido; al caso di Dora, per quanto riguarda l’analisi del profondo; all’analisi dell’ “l’uomo dei lupi”, legata alla spiegazione dei fenomeni di controtranslazione (Ellenberger 1970). In tal senso appare evidente come le teorie generali della psicoanalisi, essendo formulate principalmente a partire dall’analisi di singoli casi clinici, getti le proprie fondamenta sulla base di un discorso di tipo idiografico.
In modo diametralmente opposto viene elaborata la struttura teorica della psicologia del deficit parentale, la quale studia il comportamento umano a partire da un vertice di ordine generale. Secondo la Psicologia del deficit parentale, infatti, per comprendere l’essere umano occorre innanzitutto studiarlo come specie (ovvero in relazione a quegli aspetti che egli ha in comune con tutti i suoi simili), nei suoi aspetti biologici inerenti alle istanze di adattamento ambientale. In altre parole, per spiegarci il significato e le origini del comportamento umano dovremmo porci la seguente domanda: a cosa serve? Qualsiasi elemento naturale, infatti, trae la sua forma specifica per opera della selezione naturale, che nel tempo lo ha scolpito in quella data maniera, affinché esso svolgesse una funzione ben precisa ed essenziale alla sopravvivenza in un dato ambiente. Questo, ovviamente, è vero anche per ogni aspetto riguardante l’essere umano, compresa la sua struttura mentale.
In tal senso, ad esempio, la psicologia del deficit materno pone in relazione la dipendenza affettiva al fenomeno della neotenia, l’insorgere dell’angoscia al naturale terrore di predazione dovuto ad un deficit parentale, la depressione a pattern comportamentali istintuali, ecc.
Questo tipo di approccio, rinunciando ad eleganti e romantiche speculazioni astratte, spesso più vicine al romanzo che a un trattato di scienze, si propone di approfondire la conoscenza del comportamento umano utilizzando una metodologia che si pone in continuità con quella di scienze tradizionali come la biologia e la genetica.
Filogenetica e ontogenetica
L’impianto teorico della psicologia del deficit parentale comprende due aree teoriche coordinate tra loro: l’una posta su un piano filogenetico (riguardante il corso della storia naturale); l’altra focalizzata sulla più minuta dimensione ontogenetica (relativa allo sviluppo del singolo individuo). La prima area, quella filogenetica, è di ordine più generale e teorico; si basa principalmente su studi di tipo etologico, antropologico e biologico; interpreta il comportamento umano come il frutto di un adattamento sviluppatosi lungo il corso della storia naturale; e trova il proprio centro teorico intorno ai concetti chiave di Attaccamento (J. Bowlby), Imprinting (K. Lorenz), Gene Egoista (R. Dawkins) e Neotenia (L. Bolk).
La seconda area di studi, relativa al piano ontogenetico, risulta, rispetto alla prima, di carattere maggiormente applicativo e pragmatico. In tal senso questo secondo piano di lavoro si occupa soprattutto di sviluppare una teoria della tecnica psicoterapeutica di tipo individuale, a partire dalle teorie biologiche indicate sopra. In questo senso è possibile affermare che la psicologia del deficit parentale trovi il proprio campo di studi e di applicazione in un area, per così dire, compresa tra un piano filogenetico ed un piano ontogenetico, compiendo, in tal modo, un vertiginoso ed affascinante salto dalla macroscopica dimensione della storia naturale a quella microscopica focalizzata sulla singola persona, immersa nel proprio ambiente di vita.
Il concetto di regressione nella storia della psicologia e inquadramento biologico della psicologia del deficit parentale all’interno del filone di studi della psicologia dinamica
Nella seconda metà dell’800 Lombroso fonda un importante Scuola di antropologia criminale, che individua la causa principale di degenerazione organica e mentale in una regressione di tipo filo-ontogenetico, ovvero nel concetto positivistico e fisiognomico dell’atavismo. Successivamente Freud applicò il concetto di regressione trasponendolo da un piano somatico-caratteriale ad uno psicoanalitico: in tal senso la malattia mentale andrebbe rintracciata nella incompleta maturazione psicosessuale dei pazienti (Pancaldi 1983). Su questa stessa via, ma con premesse e approdi molto diversi, la psicologia del deficit parentale pone la propria attenzione sul concetto di regressione filo-ontogenetica, riguardante lo sviluppo degli istinti sociali dei mammiferi: attraverso questa prospettiva, infatti, sarebbe possibile rintracciare il disturbo mentale, per così dire, nello smarrimento delle più recenti acquisizioni adattative mammifere (caratterizzate da un incremento della motivazione all’incontro e alla aperture relazionale con i propri simili), e con il ritorno regressivo verso modalità relazionali di tipo arcaico e rettile (basate su atteggiamenti di attacco, fuga e chiusura verso il prossimo).
Questo tipo di argomentazione si basa in primo luogo sulle informazioni di matrice neuroanatomica relative al concetto di cervello triunico (MacLean 1990). In tal senso, semplificando molto, è possibile identificare nella struttura cerebrale tre strati anatomo-funzionali: 1) la parte più interna, detto cervello rettile o paleocorteccia, sede degli istinti animali più atavici e di base; 2) il cervello medio o corteccia libica, deputato alla elaborazione delle emozioni relative alle cure parentali tipiche dei mammiferi; 3) la porzione più esterna, la neocorteccia, deputata alle funzioni mentali superiori.
Appare interessante sottolineare come le teorie della psicologia del deficit parentale risultino coerenti con le evidenze neuroanatomiche relative al concetto di cervello triunico, secondo il quale la mente umana sarebbe costituita sulla base di un substrato organico contenente al proprio interno strutture funzionali formatesi in momenti evolutivi successivi. In tal senso sarebbero rintracciabili all’interno della espressione mentale umana, pattern comportamentali relativi ad istanze istintuali non del tutto conciliabili tra loro, poiché sviluppatisi in momenti diversi della storia della evoluzione umana, per far fronte a differenti situazioni ambientali.
Sulla base di questo discorso risulta possibile definire la psicologia del deficit parentale come appartenente al filone degli studi di psicologia psicodinamica, ovvero relativo a quella famiglia di teorie che definiscono la mente come una struttura plastica intrinsecamente conflittuale tra le sue diverse parti.
In relazione agli argomenti affrontati risulta opportuno sottolineare brevemente una semplice ma fondamentale distinzione: a differenza degli studi antropologico-criminali sopra citati, che costituirono un fondamento pseudoscientifico a favore dei motivi reazionari e repressivi del potere borghese appena costituito (Friggessi 2003; Gibson 2002; Villa 1985), la psicologia etologica, come si vedrà poi, risulta teoricamente coerente con istanze sociali di stampo progressista. Essa infatti sulla base di una profonda critica sociale al tradizionale modello adultocentrico, si fa promotrice di un rinnovamento culturale il cui senso arriva a superare il cerchio specialistico della psicologica clinica, giungendo a coinvolgere le scienze dell’educazione, la sociologia, la politica e l’arte.
Bibliografia:
Battacchi M.W. (1990), Trattato enciclopedico di psicologia dell’età evolutiva, Piccin, Padova
Bolk L. (1926), Das problem der Menschwerdung, Gustav Fisher, Jena.
Bowlby J. (1953), Assistenza all’infanzia e sviluppo affettivo, Armando, Roma.
Dawkins C. R. (1976), Il gene egoista, Mondadori, Milano.
Ellenberger H. F. (1970), The Discovery of the Unconscious, Basic Books, New York.
Frigessi D. (2003), Cesare Lombroso, Einaudi, Torino.
Gibson M. (2002), Born to crime, The Office of Sponsored at John Jay College of Criminal Justice, New York.
Konrad L. (1949), L’anello di re Salomone, Fabbri, Milano.
MacLean P. D. (1990), The triune brain in evolution: role in paleocerebral functions, Plenum Press, New York.
Pancaldi G. (1983), Darwin in Italia, Il Mulino, Bologna.
Villa R. (1985), Il deviante e i suoi segni. Lombroso e la nascita dell’antropologia criminale, Angeli, Milano.